~ curiosità romane ~ - 9 - quando Mastro Titta passava ponte le pubbliche esecuzioni nella Roma del XIX secolo · pagina 1 · |
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Con queste parole si apre uno dei numerosi sonetti di Giuseppe Gioachino Belli ispirati alle esecuzioni che avevano luogo a Roma.Viengheno: attenti: la funzione è llesta...
(Vengono: attenti: la funzione è rapida...)
Fino al 1870, ai tempi in cui la città era governata dal Papa Re come una monarchia assoluta, le pubbliche esecuzioni erano uno degli spettacoli preferiti dal popolino, che non solo trovava questa pratica ripugnante di proprio gradimento, ma addirittura portava con sé i figli ad assistere all'evento, a mo' di strumento educativo.
Le leggi pontificie, una commistione di codice civile e religioso, erano tanto rigide con il popolo e con i liberali quanto erano permissive con la nobiltà, specialmente coi membri appartenenti a famiglie che annoveravano uno o più vescovi o cardinali, i quali a quei tempi rappresentavano "il sistema": giudici, ministri, persino il capo della polizia, appartenevano tutti al clero. Dal 1796 al 1864, a mettere in atto le alquanto frequenti esecuzioni, a Roma operò un unico uomo, Giovanni Battista Bugatti, il cui soprannome Mastro Titta divenne leggendario: nel corso di un'attività durata ben 70 anni, mise in atto 516 condanne, o giustizie, come si chiamavano allora. È da lui che il termine "Mastro Titta" cominciò ad essere usato a Roma come sinonimo di boia, tanto per indicare i molti che lo precedettero quanto per i pochi che seguirono. Un personaggio talmente presente nell'immaginario popolare da entrare persino in una nota filastrocca per bambini, che recita: Sega, sega, Mastro Titta / 'na pagnotta e 'na sarciccia / un'a mme, un'a tte, un'a mmàmmeta che sso' ttre. Pur professando uno dei mestieri più orribili, Mastro Titta faceva il suo dovere con distacco, che è poi un tradizionale atteggiamento dei romani verso gli alti e bassi della vita. Talvolta era uso offrire ai condannati un'ultima presa di tabacco, quasi a voler dire loro non ve la prendete con me se oggi vi trovate qui, o coraggio: non ci vorrà molto tempo, farò un bel lavoro. |
un Mastro Titta ancora giovane offre del tabacco prima di mettersi all'opera; l'ambientazione è Ponte Sant'Angelo |
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vicolo del Campanile: la casa dove viveva Mastro Titta |
Insomma, non svolgeva quell'attività per suo piacere, ma poiché qualcuno doveva pur farlo... se ne occupava lui, anche con grande professionalità! Mastro Titta per vivere svolgeva un'attività regolare: era verniciatore d'ombrelli, un'attività per la quale gestiva una bottega nel quartiere di Borgo, sulla sponda occidentale del Tevere, non distante dai palazzi pontifici. Ancora oggi lì esiste una via degli Ombrellari. Risiedeva in vicolo del Campanile 2, in una palazzina dei primi del Cinquecento tutt'ora esistente. Per via della sua seconda "occupazione" più saltuaria, a salvaguardia della sua stessa incolumità, gli era vietato accedere ai rioni centrali della città, situati sulla sponda opposta del Tevere; poteva farlo solo in veste ufficiale, per il ben noto motivo: quando si diceva Mastro Titta passa ponte, significava che qualcuno stava per rimetterci la testa. Quest'attività gli assicurava un certo numero di benefici, benché in fondo anche allora la gente considerasse la sua professione non certo in modo positivo; in una delle sue note, infatti, Belli osserva:
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Mastro Titta andò in pensione all'età di 85 anni e per i cinque anni che ancora visse gli fu persino riconosciuta una pensione per lunghissimi servizi (come risulta da un documento ufficiale), servizi che prendeva molto sul serio: all'alba dei giorni fatidici - la maggior parte delle esecuzioni aveva luogo di mattina presto - indossava un mantello scarlatto e, solennemente, "passava ponte". Teneva anche un registro della sua attività: un taccuino sul quale scupolosamente annotava date, nomi e colpe per cui tali servizi venivano richiesti. Entratone in possesso un editore, nel 1891 questo documento diede spunto ad un anonimo autore (forse Ernesto Mezzabotta) per pubblicare a dispense, a firma dello stesso Mastro Titta, un'antologia delle storie più avvincenti dei criminali giustiziati sotto il titolo Memorie di un carnefice scritte da lui stesso; un'edizione online di quest'opera è disponibile nel sito del Museo Criminologico di Roma. piazza del Popolo, uno dei siti dove avevano luogo le pubbliche esecuzioni → |
A rischio di apparire un po' macabri, è opportuno ricordare la versatilità di Mastro Titta nel maneggiare il suo "strumentario" di lavoro: le sue tecniche comprendevano l'impiccagione, il mazzolamento (cioè l'uccisione con un preciso colpo di mazza), la decapitazione a mezzo ghigliottina (retaggio della Rivoluzione Francese) e persino lo squartamento; quest'ultima era una pena aggiuntiva, comminata ai rei di crimini particolarmente efferati - ad esempio, l'omicidio di un prelato - e veniva inflitta dopo l'uccisione, al corpo ormai privo di vita, con successiva affissione dei quarti smembrati ai quattro angoli del patibolo.
Le pubbliche esecuzioni si tenevano in luoghi fissi; piazza del Popolo, la vasta platea sotto il Pincio, era una di questi. Ancora oggi una targa affissa nel 1909 da un'associazione di democratici ricorda due carbonari qui giustiziati nel 1825, la loro condanna « ordinata dal papa senza prove e senza difesa ».
Di lì a poco, il governo fece coprire queste parole con lo stucco, in segno di amicizia verso il Vaticano; ma vari anni dopo, nel corso di un restauro al palazzo dove la targa è affissa, il testo riaffiorò, stavolta a imperitura memoria « per volontà ammonitrice di popolo ». Alla vicenda dei due carbonari è ispirato anche uno dei film più noti del regista Luigi Magni, Nell'anno del Signore (1969). Un altro famoso sito per le sentenze capitali era la piazzetta ad uno dei capi del ponte dirimpetto a Castel Sant'Angelo, la cui splendida veduta non serviva certo ad attenuare la crudeltà dello spettacolo che vi si teneva. |
la targa in piazza del Popolo |
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Citando questi luoghi in uno dei suoi sonetti, Belli vi aggiunse in calce un'altra nota sagace, che reca la data 1835 e dice:
← lo spiazzo presso Ponte Sant'Angelo dove veniva montato il patibolo |
Ma non solo la plebe e il poeta Belli furono testimoni di tali crudi raduni: anche due celebri autori inglesi lasciarono una descrizione dell'opera di Mastro Titta. Il 19 maggio 1817, George Gordon Byron si trovava a piazza del Popolo mentre tre condannati venivano decapitati (...per omicidj e grassazioni, ebbe a scrivere Mastro Titta nel suo taccuino) e il poeta fece menzione di questa esperienza in una lettera indirizzata al suo editore John Murray. Un ricordo molto più dettagliato, però, lo lasciò Charles Dickens. Il romanziere stava girando l'Italia nel 1845; fra i suoi ricordi di Roma, descrisse l'esecuzione di un altro criminale in Pictures of Italy (1846). Il passo in questione è disponibile tradotto in italiano a pagina 2; chi volesse cimentarsi con l'originale, invece, lo troverà in quest'altra pagina. Come osserva Dickens nella sua cronaca, in caso di decapitazione la testa veniva immediatamente mostrata alla folla dai quattro lati del patibolo, prima di essere lasciata in bella mostra per qualche tempo, di solito infilzata alla cima di un palo (ciò che in tempi anteriori si usava fare, per tempi assai più lunghi, sui due lati di Ponte Sant'Angelo). |
un maturo Mastro Titta mostra alla folla una testa femminile recisa (la "giustizia" non era per soli uomini!) |
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via dei Cerchi, altro luogo dove si eseguivano le "giustizie"; San Giovanni si trova lungo la buia strada sulla destra |
Una curiosa abitudine che l'autore inglese sembra aver trascurato, forse perché troppo preso da ciò che accadeva sul palco, è che in mezzo alla grande folla molti uomini erano soliti portare con sé i propri figli maschi per mostrare loro ogni dettaglio della cerimonia: proprio nel momento in cui veniva giù la lama (...e la testa) o quando, in caso di impiccagione,
il condannato rimaneva appeso, era consuetudine dare loro uno sganassone (cioè una sberla), come tangibile ricordo di ciò che sarebbe potuto loro capitare il giorno che si fossero messi nei guai con la giustizia. E fra i bassi ceti sociali, a quei tempi, ciò accadeva molto spesso. Di questo costume fa menzione Belli in uno dei suoi sonetti più conosciuti, dei quali una piccola selezione tematica è riportata a pagina 2. |
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Un altro elemento della lugubre cerimonia era la processione dei frati che accompagnavano i condannati fin sotto il patibolo, indossando un saio nero con un cappuccio a punta.
Appartenevano alla Confraternita della Misericordia, una congregazione fiorentina; secoli addietro, lo stesso Michelangelo ne era stato membro. La loro sede in Roma era presso la chiesa di San Giovanni Decollato, situata in una stradetta non lontano da via dei Cerchi, il luogo dove in quegli anni si tenevano le esecuzioni.
La congregazione si occupava dei conforti religiosi per i condannati; dopo l'esecuzione, gli stessi frati portavano via i corpi per seppellirli nel chiostro della chiesa. Per antico privilegio, concesso da papa Paolo III nel 1540, ogni anno la Confraternita della Misericordia aveva il diritto di liberare un condannato a morte. La scelta veniva fatta sulla scorta delle informazioni che i frati raccoglievano riguardo ai vari condannati, ai loro crimini e ai loro processi, alla domanda di perdono inoltrata ai familiari delle vittime (che era vincolante per ottenere la grazia) e alla fine si teneva un ballottaggio, per decidere quale carcerato era più meritevole della salvezza e quando svolgere la cerimonia. | (↑ in alto) i membri della Misericordia indossavano tuniche simi a queste; (← a sin.) San Giovanni Decollato |
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Cimeli delle suddette cerimonie sono ora conservati presso la Camera Storica della congregazione, presso la chiesa di San Giovanni Decollato, aperta al pubblico un giorno all'anno, quello del santo, cioè il 24 giugno.
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una testa offerta in un piatto: il sigillo dell'arciconfraternita di San Giovanni Decollato |
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