~ Monografie Romane ~ Acquedotti · II parte · |
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COME FUNZIONAVANO GLI ACQUEDOTTI ROMANI
Gli acquedotti raccoglievano l'acqua da diverse sorgenti naturali situate a notevole distanza dalla città (le più lontane erano quelle dell'Aqua Marcia e dell'Anio Novus, a una sessantina di miglia romane (circa 90 km) ad est di Roma.
Ogni "acqua" veniva scelta in conseguenza di molti fattori: la posizione delle sue sorgenti, la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, e talvolta persino le sue presunte proprietà medicamentose, conseguenza dei sali minerali che conteneva.

ramo secondario dipendente dall'Aqua Claudia, diretto ad un'utenza privata: la villa dei Sette Bassi (o Roma Vecchia)
Non c'era alcuna fonte di energia a muovere l'acqua in direzione della città se non la forza di gravità, cioè l'acquedotto agiva da continuo scivolo per tutta la distanza che separava le sorgenti dal punto del suo sbocco. Per ottenere tale risultato ciascuno di essi veniva progettato in modo tale che ogni singola parte del lungo tracciato corresse leggermente più in basso di quello precedente, e leggermente più in alto di quello successivo.
Per tale ragione l'acqua doveva essere presa da sorgenti situate in collina, più in alto rispetto alla posizione di Roma, in particolare nei dintorni ad est della città, ed ogni punto del lungo percorso doveva essere attentamente pianificato, a seconda delle caratteristiche del terreno che incontrava.
Prima di essere incanalata, l'acqua passava attraverso una o più vasche dette piscinae limariae, dove la velocità di flusso rallentava, consentendo al fango (limo) e alle altre particelle di depositarsi.
Ogni "acqua" veniva scelta in conseguenza di molti fattori: la posizione delle sue sorgenti, la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, e talvolta persino le sue presunte proprietà medicamentose, conseguenza dei sali minerali che conteneva.
ramo secondario dipendente dall'Aqua Claudia, diretto ad un'utenza privata: la villa dei Sette Bassi (o Roma Vecchia)
Non c'era alcuna fonte di energia a muovere l'acqua in direzione della città se non la forza di gravità, cioè l'acquedotto agiva da continuo scivolo per tutta la distanza che separava le sorgenti dal punto del suo sbocco. Per ottenere tale risultato ciascuno di essi veniva progettato in modo tale che ogni singola parte del lungo tracciato corresse leggermente più in basso di quello precedente, e leggermente più in alto di quello successivo.
Per tale ragione l'acqua doveva essere presa da sorgenti situate in collina, più in alto rispetto alla posizione di Roma, in particolare nei dintorni ad est della città, ed ogni punto del lungo percorso doveva essere attentamente pianificato, a seconda delle caratteristiche del terreno che incontrava.
diagramma di un dioptra:
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Gli architetti romani deputati a questo compito (i libratores) erano molto abili in questa attività, per la quale disponevano di arnesi sofisticati: a parte la comune livella, simile a quella usata oggi dai falegnami, utilizzavano strumenti come il chorobates e il dioptra. Il primo era una sorta di panca con fili a piombo sui lati per misurare l'inclinazione del terreno su un sistema di tacche graduate, e un breve canale al centro, che serviva verosimilmente per testare la direzione del flusso. Il dioptra era un diverso tipo di livella: poggiato in terra, e finemente regolato mediante angolatura e rotazione della sua parte superiore a mezzo di viti di
precisione, poteva calcolare l'inclinazione di un segmento di acquedotto puntandolo con un sistema di mirini girevoli. diagramma di un chorobates:
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Prima di essere incanalata, l'acqua passava attraverso una o più vasche dette piscinae limariae, dove la velocità di flusso rallentava, consentendo al fango (limo) e alle altre particelle di depositarsi.
Simili vasche si trovavano anche lungo il corso di molti acquedotti, per rimuovere qualsiasi impurità.
Lontano dall'area urbana gran parte del percorso degli acquedotti era sotterraneo:
scavando pozzi verticali veniva raggiunta l'altezza richiesta per mantenere un percorso in discesa, e quindi il canale (specus) veniva scavato attraverso la roccia. In molti casi le pareti dello speco erano rivestite di uno strato impermeabile detto opus signinum, o cocciopisto, fatto di malta mescolata con minuti frammenti di anfore e mattoni sbriciolati, dello spessore da 5 a 10 cm. |
Le dimensioni medie della sua sezione erano all'incirca 1 m di larghezza per 2 m di altezza, ma potevano notevolmente variare in ragione del flusso previsto per ogni singolo tratto. Ad esempio, quello mostrato a destra (Aqua Marcia) misura 0.60 m per 1.35 m
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↑ tratto di speco integro dell'Aqua Marcia |
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Lungo il percorso esterno dell'acquedotto ogni 240 piedi (70 m) una grossa pietra segnalava la presenza del canale sotterraneo, e per evitare danni e inquinamento doveva essere rispettata una distanza di sicurezza di 5 piedi (1.45 m) dal suo passaggio. L'illustrazione qui a destra mostra uno di questi cippi rinvenuto presso Porta Maggiore, vicino al sito chiamato ad Spem Veterem (vedi oltre); il testo comincia con le parole HAC RIVI AQ(VARVM) TRIVM EVNT..., "qui si trovano i canali di tre acque...", con riferimento ai tre acquedotti Aqua Marcia, Tepula e Iulia che giungevano in questo punto. Tutti gli acquedotti erano pubblici, di proprietà del governo a beneficio dei cittadini. Il loro danneggiamento o inquinamento veniva severamente punito, così come anche usare l'acqua per ville o terreni privati collegandosi illegalmente alle condutture pubbliche. Rami privati in effetti esistevano (come mostra l'illustrazione in apertura di pagina), ma potevano utilizzare solo il surplus dell'acqua disponibile, e per fare ciò si pagava un tributo. |
↓ cippo indicante la presenza di un acquedotto |
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Per via delle caratteristiche del terreno, alcune parti del dotto dovevano correre in superficie (illustrazione in basso a destra), lungo un fosso le cui pareti erano rinforzate con una palizzata.
speco con copertura "a tetto" |
Lo speco era ricoperto con lastre di pietra, proteggendo l'acqua dall'esposizione diretta alla luce del sole, dal terriccio, dalle foglie, ecc.
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Di solito le parti esposte dell'acquedotto venivano delimitate da un basso muro coperto in qualche modo, con una distanza di sicurezza dal canale aumentata a 15 piedi (4.40 m).
Quando il dotto raggiungeva una parete scoscesa o una gola, una possibile soluzione era di costruire un ponte, o viadotto, per attraversare il salto e raggiungere il lato opposto ad un'altezza leggermente inferiore: qui il percorso del canale ritornava sotterraneo. Un'altro modo di superare tali formazioni naturali era di attraversarle con il "sifone invertito", una tecnica basata su un semplice principio fisico. |
Appena prima del salto l'acqua veniva raccolta in una cisterna, dalla quale una tubatura la conduceva in fondo al dirupo per forza di gravità, e quindi la faceva risalire fino ad una seconda cisterna grazie alla pressione generata lungo la discesa. Un piccolo viadotto era spesso costruito a valle per ridurre l'altezza massima del salto, e quindi minimizzare la pressione richiesta per risalire la parete opposta. |
tubatura in terracotta: gli elementi si incastrano l'uno nell'altro (Museo Nazionale Romano Crypta Balbi) |
Il sifone non veniva usato spesso per gli acquedotti romani perché le tubature disponibili a quei tempi, di terracotta, con un manicotto e un solco alle opposte estremità per permettere di incastrarsi le une nelle altre, oppure di piombo, tenute assieme da saldature non di rado eseguite piuttosto approssimativamente (vedi illustrazione più in basso), non riuscivano a sostenere bene la forte pressione generata lungo la discesa, provocando grosse perdite d'acqua e necessitando di frequenti riparazioni. |
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Invece gli architetti più spesso preferivano allungare il percorso dell'acquedotto, a volte in modo considerevole, per seguire le caratteristiche naturali del terreno e incontrare costantemente una pendenza regolare.
tubatura in piombo, databile al V secolo (Museo Nazionale Romano - Crypta Balbi) Ciò spiega perché molti acquedotti erano notevolmente più lunghi della distanza in linea d'aria fra le loro sorgenti e il punto di arrivo. Questo è il caso dell'Aqua Virgo, mostrata nella pianta qui in basso, le cui sorgenti erano situate a 10.5 Km (7 miglia romane) a est di Roma, ma il cui acquedotto era lungo 20.5 Km (14 miglia romane). |
particolare della rozza saldatura di una conduttura di piombo (in mostra nella stazione della metropolitana Manzoni) |
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resti dell'Aqua Claudia nei pressi di Torre Fiscale (visibile sullo sfondo); qui l'acquedotto raggiungeva 27 m di altezza |
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Più l'acqua viaggiava in alto, più numerosi erano i rioni a cui si sarebbe potuta distribuire. Attraversavano la campagna per diverse miglia, mantenendo il livello idrico ad un'altezza tale da consentirgli di raggiungere l'area urbana.
Il nucleo degli alti pilastri era fatto di calcestruzzo (opus caementicium), cioè una mescolanza di pietre e malta, e quindi rivestita in diversi modi per ragioni estetiche: o con bugnato di tufo (opus quadratum, impiegato per molti acquedotti fino alla prima età imperiale), oppure con piccoli cubi di tufo disposti in diagonale alternati a file a mattoni (opus mixtum, utilizzato per l'Aqua Traiana), o solo con una cortina di laterizio (opus latericium od opus testaceum, utilizzato per l'Aqua Alexandrina). Nella parte sommitale dell'attico, corrispondente al tetto del canale, si trovavano alcune aperture che consentivano i medesimi interventi di manutenzione richiesti dai dotti sotterranei. |
schema in sezione di un generico acquedotto |
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Quando un acquedotto raggiungeva l'area urbana, il suo sbocco principale veniva a trovarsi in uno dei punti più elevati della città. In particolare, molti acquedotti raggiungevano Roma da sud-est, presso un sito chiamato ad Spes Veterem ("presso la speranza vecchia") da un antico Tempio della Speranza che una volta vi sorgeva. L'acqua quindi entrava in città dal vicino colle Esquilino, da dove poteva essere distribuita a gran parte degli altri quartieri.
In alcuni casi acquedotti più "ricchi" ne aiutavano altri a mantenere un volume d'acqua sufficiente al rifornimento delle rispettive aree: per esempio, l'Aqua Claudia versava circa 1/8 della sua portata nelle Aqua Iulia e Aqua Tepula.
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Non tutti gli acquedotti entravano a Roma passando su un acquedotto: quello più antico, l'Aqua Appia, correva quasi completamente in sotterranea, così come pure quelli provenienti da nord-ovest, Aqua Alsietina e Aqua Traiana, che rifornivano l'VIII regio, Transtiberim (cioè Trastevere) dalla cima del colle Gianicolo.
In tali casi, entro l'area urbana venivano usati i lapides perterebrati, speciali blocchi di tufo attraversati da un cilindro cavo di terracotta. Anche questi avevano ad una delle estremità un manicotto che permetteva di incastrarsi l'uno nell'altro, formando un condotto. In quest'ultimo trovava alloggio una tubatura di piombo, oppure poteva scorrervi direttamente l'acqua (nel qual caso l'interno era rivestito in cocciopisto impermeabile). Molti di questi sono stati rinvenuti negli scavi archeologici, consentendo l'identificazione di vari canali sotterranei menzionati dalle fonti letterarie. | diagramma dei lapides perterebrati |
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L'Aqua Alsietina, il più antico dei due acquedotti occidentali (2 avanti Cristo), raccoglieva l'acqua da un piccolo lago a nord di Roma chiamato Lacus Alsietinus (ora Lago di Martignano). Quest'acqua non era potabile: l'imperatore Ottaviano Augusto la usava solo per riempire la sua naumachia in Trastevere, dove assieme al pubblico amava assistere a battaglie navali, e per l'irrigazione degli Horti (giardini) di Cesare, nello stesso quartiere.
Quella costruita da Augusto non era l'unica naumachia di Roma: si sa che ne esisteva un certo numero, sebbene nel corso del tempo siano tutte scomparse e ne rimanga solo una rappresentazione ipotetica della loro forma, in stampe e dipinti antichi, come nelle illustrazioni qui a lato. Ciò dà comunque un'idea dell'enorme quantità di acqua di cui poteva disporre l'antica Roma. |
Il principale sbocco di un acquedotto aveva l'aspetto del castellum ("castello"), una struttura di dimensioni variabili che conteneva una o più vasche simili alle piscinae limariae, dove il flusso idrico rallentava e le ultime impurità sedimentavano.
L'acqua veniva quindi versata all'esterno da un certo numero di bocchettoni a forma di calice. Molti castelli apparivano come semplici prismi, ma alcuni avevano l'aspetto di fontane, o ninfei, decorati con statue, rilievi o mosaici. Erano sorvegliati da guardie per evitare qualsiasi manomissione dei dotti o inquinamento dell'acqua. Dal castellum principale altre parti della città venivano raggiunte grazie a rami minori dell'acquedotto, tanto su viadotti sopraelevati che lungo canali sotterranei, sempre seguendo una continua pendenza come quello principale. Anche questi a volte avevano rami successivi, e terminavano con castelli più piccoli, oppure rifornivano direttamente terme, fontane, ecc.: in effetti, l'antica Roma era attraversata da una rete di condotte idriche piuttosto complessa. |
un "castello", evidenziato in giallo, che versa A.Iulia o A.Tepula presso le Terme di Diocleziano (dalla pianta di Roma antica di E.Du Perac, 1574) |
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diagramma di un generico sbocco:
A - condotto principale B - "castello" C - ramo secondario D - bocchettone
I parte |
III parte |
IV parte |
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