~ Monografie Romane ~

Acquedotti
· III parte ·
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COS'É RIMASTO VISIBILE AI NOSTRI GIORNI

Per secoli i resti degli antichi acquedotti sono stati uno dei soggetti preferiti di pittori e incisori, sebbene le parti meglio conservate siano ovviamente rimaste in piedi assai lontano dal centro storico della città.

Scopo della III parte di questa monografia è di mettere in evidenza i resti degli acquedotti romani, situati per la maggior parte in zone periferiche. Quest'ultime oggi sono moderni quartieri, anche densamente popolati. Ma fino agli inizi del Novecento erano praticamente campagna, dove i grandi acquedotti non causavano alcun impedimento al traffico dei veicoli, né tantomeno occupavano prezioso terreno edificabile. Pertanto più ci si allontana dalla "Roma ufficiale" che i turisti sono soliti percorrere, più ciò che resta degli acquedotti è ben conservato, mantenendo a tratti ancora l'aspetto maestoso di un tempo, come queste illustrazioni mostrano chiaramente.

serie di fornici ben conservati dell'Aqua Claudia


serie di fornici dell'Aqua Alexandrina
Dopo essere stati danneggiati durante un assedio nella prima metà del VI secolo (se ne può leggere una testimonianza storica nella IV parte), gli acquedotti rimasero solo delle strutture ingombranti ed inutili, che fungevano principalmente da fonte di materiale da costruzione, da cui ricavare mattoni e pietre.
Anche i terremoti e successive guerre contribuirono a danneggiare ciò che ne restava; ciò spiega la scarsità delle loro tracce entro gli antichi confini urbani, cioè l'attuale centro storico di Roma.
Alcune porzioni interessanti ne sono rimaste in piedi all'estremità meridionale ed orientale della città.

Per ragioni di praticità, ciò che è possibile vedere è raggruppato e descritto in tre pagine, secondo la dislocazione dei resti.

Muovendo il cursore del mouse sulle illustrazioni viene indicata l'ubicazione esatta dei vari soggetti.





ACQUEDOTTI PRESSO LE PORTE CITTADINE

Prima di divenire la principale porta a sud-est delle mura di Aureliano (275 circa), Porta Praenestina, ora chiamata Porta Maggiore, era un doppio fornice del locale acquedotto.
Lo stesso può dirsi di Porta Tiburtina, la successiva verso est (cfr. anche Mura Aureliane, II parte, pagina 1 e pagina 2 per i dettagli e per altre illustrazioni).
Infatti, nel punto dove i viadotti incrociavano strade importanti, come quelli di cui sopra rispettivamente presso la via Praenestina e la via Tiburtina, venivano spesso innalzati degli archi con decorazioni speciali che celebravano il committente della costruzione dell'acquedotto (più spesso, un imperatore). Quando fu progettata la cinta muraria di Aureliano, i due archi anzidetti vennero incorporati nella nuova struttura difensiva.
Ma nonostante la loro trasformazione in porte cittadine, continuarono a funzionare come dotti, dando passaggio all'acqua nella loro parte superiore: l'Aqua Marcia, l'Aqua Tepula e l'Aqua Iulia passavano sopra Porta Tiburtina, mentre l'Aqua Claudia e l'Anio Novus passavano su Porta Praenestina.

Porta Praenestina (oggi Porta Maggiore): due dotti passavano sopra i suoi archi

L'area appena davanti Porta Praenestina era detta ad Spem Veterem (cfr. la II parte); qui convergevano cinque diverse "acque" (in effetti erano sei, includendovi il corso sotterraneo dell'Aqua Alexandrina, sebbene il suo canale non sia mai stato individuato). Portavano oltre il 70% della fornitura idrica totale di Roma: il diagramma che segue illustra la direzione di tali acquedotti secondo l'archeologo Rodolfo Lanciani (fine XIX secolo), ma gli elementi grafici tridimensionali provengono, adattati, dalla pianta di Roma antica di Étienne Du Perac (1576).
Vengono anche mostrati i tratti che Sisto V riutilizzò per la sua Acqua Felice. Ciò che è rimasto in piedi è colorato in ocra, mentre le parti scomparse sono in grigio chiaro.


la rete di acquedotti nell'estremo sud-orientale di Roma: i nomi dei siti antichi
sono in nero, quelli attuali in blu, e i punti indicano l'attuale linea ferroviaria
L'Aqua Marcia, Tepula e Iulia seguivano il muro di Aureliano dirette verso Porta Tiburtina. Prima di questa, l'Aqua Marcia staccava un importante ramo, il Rivus Herculaneus, che con molta probabilità riforniva anche il vicino ninfeo dei Licinii, più comunemente noto come Tempio di Minerva Medica (cfr. Le Mura Aureliane II parte pagina 3).
Il Rivus Herculaneus portava acqua al colle Celio, nella parte meridionale della Roma repubblicana, e poi si incanalava sottoterra, parallelamente alla più antica Aqua Appia, raggiungendo il colle Aventino (a sud-ovest). Di questo ramo non è rimasto niente, tranne alcuni segmenti del dotto sotterraneo.

Solo antiche testimonianze fotografiche (XIX secolo) mostrano sull'Aventino qualche fornice superstite di un ramo del Rivus Herculaneus che riforniva le Terme Surane, impianto che sorgeva tra l'attuale roseto comunale e la chiesa di Santa Prisca, e che prendeva il nome da Lucio Licinio Sura, generale e amico dell'imperatore Traiano.


Presso Porta Tiburtina il triplice acquedotto divergeva dal muro di Aureliano, puntando dritto verso il colle Quirinale, cioè a nord. Qui dell'Aqua Marcia si staccava un altro ramo maggiore, costruito alla fine del III secolo, chiamato Aqua Iovia, che riforniva d'acqua l'enorme complesso delle Terme di Diocleziano.
Nel 1587 questa parte dell'Aqua Marcia fu convertita nell'Acqua Felice. Tuttavia, sul finire dell'800, a causa dei lavori per la costruzione della Stazione Termini, tutto l'acquedotto da Porta Tiburtina in poi fu demolito. Ne rimangono solo i primi 100 metri all'incirca; essi terminano con un arco celebrativo di Sisto V che incontra subito ad angolo retto il muro perimetrale della stazione ferroviaria, in piazzale Sisto V, come descritto più avanti in questa pagina.

Invece l'Aqua Claudia e l'ancor più ricco Anio Novus condividevano lo stesso sbocco, situato assai vicino a Porta Praenestina, sebbene le ultime tracce del loro castellum scomparvero del tutto al termine del XIX secolo.




l'Arcus Neroniani, o Arcus Caelimontani, all'origine dall'Aqua Claudia (a sin.) e 200 m più ad ovest, lungo via Statilia (integrato da restauri moderni)


ARCUS NERONIANI, O ARCUS CAELIMONTANI

Prima di raggiungere lo sbocco, anche dall'Aqua Claudia si staccava un grosso ramo che in origine l'imperatore Nerone aveva fatto costruire per la sua Domus Aurea, donde il primitivo nome di Arcus Neroniani, cioè "archi dei Neroni" (Nero era un cognome della gens Claudia).
Quando la Domus Aurea fu smantellata, il ramo venne modificato così da fargli raggiungere i colli Celio ed Aventino, e fu rinominato Arcus Caelimontani, "archi del Caelimontium", cioè della II Regio che comprendeva appunto il Celio e i rilievi minori (vedi anche I 22 Rioni). Con ciò, l'anzidetto Rivus Herculaneus divenne obsoleto. Infine, un'ulteriore estensione di questo ramo diretto al colle Palatino, al centro di Roma imperiale, fu fatta realizzare dall'imperatore Domiziano nel tardo I secolo.

l'Arcus Caelimontani si intravede tra due case,
nel passaggio all'altezza del Laterano
La prima parte dell'Arcus Coelimontani è ancora in piedi, all'incirca fino ai terreni del Laterano, mentre della parte restante non ne rimane che qualche frammento, soprattutto presso la chiesa di Santo Stefano Rotondo, sul colle Celio.
Appena oltre la chiesa, poche alte arcate dell'acquedotto attraversano il luogo dove una volta sorgeva Porta Caelimontana, appartenente alla cinta delle mura serviane (IV secolo aC). Nell'anno 10 due consoli Dolabella e Silano, a cui si siferisce un'iscrizione sopra il fornice, trasformarono il passaggio dandogli l'aspetto attuale. L'arco prese così i loro nomi.


(↑) dettaglio dei nomi di Dolabella e Silano dall'iscrizione sul fornice;
(← a sin.) il complesso dell'arco e dei resti dell'acquedotto

Un particolare curioso è che nello spessore di uno dei pilastri dell'acquedotto furono ricavate due stanze, nelle quali visse per due anni San Giovanni de Matha (1160-1213), fondatore dell'Ordine dei Trinitari, o Nuovi Crociati.

(a sinistra) i resti dell'acquedotto passano accanto alla chiesa di Santo Stefano Rotondo,
in una pianta del XVII secolo di Giovanni Maggi, e sono lì ancora oggi (a destra)

Gli ultimi frammenti dell'Arcus Caelimontani si possono vedere circa 200 metri più ad ovest, integrati con moderni laterizi, nel punto in cui attraversano la valle formata dai colli Celio e Palatino (attualmente corrispondente a via di San Gregorio, che scende dal Colosseo verso l'estremità meridionale del Circo Massimo). Oltre questo punto l'acquedotto raggiungeva la sua destinazione conclusiva: il complesso di edifici imperiali sul Palatino.

l'ultimo tratto dell'Arcus Caelimontani raggiunge il Palatino →

Poiché nell'antica Roma questa era una zona piuttosto vitale, è molto probabile che altri rami secondari dell'Arcus Caelimontani conducessero acqua alle fontane del Circo Massimo, agli esercizi che sorgevano lungo le sponde del Tevere (prossimo all'estremità opposta del circo), e così via.

Ciò che oggi è visibile di questo ramo è in parte frutto di un restauro e consolidamento condotto sotto Settimio Severo e Caracalla (primi anni del III secolo).




L'ACQUEDOTTO DI VIA TURATI

Ad un altro ramo minore apparteneva il breve tratto di acquedotto che ora traversa via Turati, la cui direzione punta verso le vicine rovine di un'enorme fontana.


l'acquedotto di via Turati

i resti detti Trofei di Mario

Ritenuto tradizionalmente un ramo dell'Aqua Iulia, dall'altezza dello speco c'è chi sostiene che potrebbe essere stato in realtà collegato tanto all'Aqua Claudia che all'Anio Novus.

I suddetti resti ora si trovano nei giardini di piazza Vittorio Emanuele. La fontana a cui appartenevano è stata identificata col ninfeo di Alessandro Severo, che viene comunemente chiamata Trofei di Mario per via di due gruppi che un tempo ne ornavano i lati, raffiguranti armi, scudi e armature presi alle tribù barbare come trofei di guerra. Per maggiori dettagli si veda la monografia Fontane.
il ninfeo in un'incisione di Étienne Du Perac (metà del XVI secolo):
i Trofei erano ancora negli archi laterali, ora non più esistenti;
(← a sin.) attualmente ornano la sommità della cordonata del Campidoglio

Nel cinquecento i "trofei" erano ancora al loro posto; le illustrazioni di epoca rinascimentale, le prime disponibili dopo l'età classica, le mostrano sul monumento, già ridotto allo stato di rovina (in alto a destra). Alla fine del secolo furono trasferite sulla sommità del Campidoglio (per maggiori dettagli si vedano la sezione I Rioni e piazza del Campidoglio).






L'ARCO DI SISTO V, O ARCO DELLE PERE

Appena oltre Porta Tiburtina, la traiettoria dell'acquedotto a tre spechi (quelli dell'Aqua Marcia, Tepula e Iulia), piega verso ovest, divergendo dalla linea diritta che seguono le mura cittadine; in effetti, sarebbe più corretto dire che sono le mura a divergere dagli acquedotti, dato che quest'ultimi vennero edificati in epoca più antica. Da questo punto le tre acque si dirigevano ai loro rispettivi castelli terminali, situati in luoghi non meglio precisati nei quartieri settentrionali Roma; uno di essi probabilmente sorgeva presso le Terme di Diocleziano.
Ciò che vediamo oggi, però, è l'acquedotto costruito nel 1587 sotto papa Sisto V, che sfruttò le strutture antico-romane ancora in parte esistenti, letteralmente riciclandole per la costruzione del suo progetto, l'Acqua Felice, il cui sbocco principale, cioè la fontana "mostra", detta Fontana di Mosè, fu realizzata a circa 350-400 metri più a nord (cfr. III parte pagina 2 e Fontane III parte, pagina 6 per altri particolari).
Ma quando fu messa in cantiere la stazione ferroviaria Termini, attorno al 1870, l'Acqua Felice era ormai ridotta a nient'altro che un'ingombrante rovina. Quindi, dato che attraversava il sito della nuova stazione, fu demolita per gran parte della sua lunghezza.

l'arco di Sisto V, appena prima della stazione (a sinistra)

Dal punto dove l'Acqua Felice (costruita sull'antica Acqua Marcia) si stacca dalla cinta muraria, di questo acquedotto rimangono solo pochi metri, come si vede nella foto. Per fortuna il segmento superstite comprende lo "speciale" arco a doppia facciata che Sisto V fece innalzare sul luogo dove l'Acqua Felice incrociava la via Tiburtina, la principale arteria che giungeva a Roma da est.
L'Arco di Sisto V è assai simile ad un altro chiamato Porta Furba (descritto a pagina 2): anche questo ha nella parte sommitale una grossa iscrizione su ciascun lato, che recita:

l'iscrizione dell'arco sul lato nord
SISTO V PONTEFICE MASSIMO
REALIZZÒ A SUE SPESE
LA CONDUTTURA DELL'ACQUA FELICE
IN FLUSSO SOTTERRANEO
PER 13 MIGLIA,
SU VIADOTTO AD ARCHI PER 7

e sul lato opposto:

SISTO V PONTEFICE MASSIMO
LASTRICÒ A SUE SPESE
LE VIE LUNGHE ED AMPIE
DA ENTRAMBI I LATI (dell'arco)
VERSO SANTA MARIA MAGGIORE
E SANTA MARIA DEGLI ANGELI
PER COMODITÀ E DEVOZIONE
DEL POPOLO
la testa di leone sulla chiave di volta del fornice maggiore
e le pere che decorano i fornici laterali

È da notare che il confine della vasta proprietà della famiglia del papa, la Villa Peretti-Montalto, passava vicinissima a questo punto: nel costruire l'acquedotto e nel lastricare le strade, Sisto V aveva tenuto in considerazione non solo il popolo come si legge nell'iscrizione, ma in primo luogo i suoi stessi interessi.
Sulla chiave di volta del fornice maggiore è presente una testa di leone, derivato dallo stemma del papa; negli spicchi ai suoi lati si trovano le altre imprese araldiche di Sisto V: la stella a otto punte (sul lato che guarda verso nord, cfr. figura qui in alto) e i tre monti (sul lato opposto). I due fornici più piccoli, invece, sono decorati con un grappolo di pere, che si riferiscono al cognome del papa (Peretti), e che tuttavia non fanno parte del suo stemma di famiglia. Questo spiega l'altro nome con cui è anche chiamata questa struttura: "Arco delle Pere".

Nulla è rimasto della fontana che una volta si trovava nei suoi pressi, una forma di benvenuto per gli assetati viandanti provenienti da est al loro ingresso in Roma.




AQUA ANTONINIANA


dell'Aqua Antoniniana resta l'Arco di Druso, (↑)
gli scarsi frammenti in piazza Galeria (→)
e i fornici presso le Terme di Caracalla (↓)
Immediatamente alle spalle di Porta San Sebastiano, l'accesso più meridionale alla città (in origine chiamata Porta Appia perché attraversata dalla via omonima), sorgono i resti di quello che viene comunemente indicato come Arco di Druso, dal tribuno Marco Livio Druso (fine del II secolo aC). Questo frammento un tempo apparteneva all'Aqua Antoniniana, un ramo dell'Aqua Marcia costruito dall'imperatore Caracalla attorno al 212-213 dC per le sue grandi terme, situate nella parte sud-occidentale dell'antica Roma. Si staccava dall'acquedotto principale attorno al III miglio della via Latina, più o meno dove oggi sorge Porta Furba (cfr. pagina 2), e seguiva il confine meridionale della città.
Esistono altre due scarse testimonianze di questo ramo: una di esse è a piazza Galeria, non lontano dalla stessa Porta San Sebastiano: consiste in qualche metro dell'attico dell'acquedotto, col suo speco. Queste porzioni però si riconoscono a stento, a causa del pessimo stato di conservazione del reperto.
Un'altra porzione superstite è situata proprio alle spalle delle Terme di Caracalla, appena prima del luogo dove questo ramo giungeva a destinazione. Lungo la via Guido Baccelli, presso l'incrocio con la via Antoniniana, in un giardinetto su uno dei lati della strada si può vedere una serie di fornici, ora ciechi e parzialmente coperti dalla vegetazione: anche questi un tempo appartenevano all'Aqua Antoniniana, che presso la vicina Porta Ardeatina disegnava un brusco gomito per puntare verso le terme.