~ miscellanea ~ - 4 - scudi, testoni, paoli l'antico sistema monetario di Roma |
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Grazie al moderno sistema monetario dell'Euro in gran parte dell'Europa è possibile usare le stesse monete e banconote; ma non più di 150 anni fa, quando la città apparteneva ancora allo Stato Pontificio, le cose andavano molto diversamente. A quei tempi non solo ogni paese aveva il suo proprio sistema, ma spesso città di uno stesso stato usavano monete diverse e a seconda del loro peso, il valore di alcune unità poteva variare. Infatti il valore d'acquisto di una moneta, specialmente se d'oro, in pratica dipendeva dal suo valore come metallo sciolto. Quindi, venivano usate solo monete, d'oro, d'argento, di mistura (una lega contenente varie percentuali d'argento, di rame e di altri metalli) e di rame; le banconote non erano state ancora inventate, ma i precursori dei moderni assegni, chiamati "lettere di credito", già esistevano: erano documenti firmati dal debitore, che il creditore esibiva ad una data banca per riceverne i contanti. |
Tutti i commerci erano soggetti al rischio di un tasso di scambio sfavorevole, e alle astuzie dei molti cambiavalute, ai quali complicate liste permettevano di calcolare quale valore ogni moneta forestiera avesse nella propria città. Inoltre, molte monetazioni erano basate su una combinazione di sistema decimale e non decimale; far tornare anche i conti più semplici, ad esempio il resto dovuto dopo un'acquisto, ai nostri occhi sarebbe sembrata
un'impresa quanto mai complicata. Quello di Roma era forse il più bizzarro tra i sistemi usati in Europa. Ciò si doveva al fatto che alcune unità erano molto antiche e il loro valore nel tempo si era un po' modificato; quelle nuove, introdotte dai papi a seguire, di solito non rimpiazzavano le unità vecchie, ma venivano semplicemente aggiunte alle preesistenti. Per di più, i romani davano soprannomi alle monete più popolari, alcune delle quali venivano chiamate alternativamente con due, tre, o talora quattro nomi diversi. Come considerazione finale, in tempi durante i quali la plebe era in larghissima parte analfabeta, stupisce come invece, a fronte di una straordinaria complessità del sistema monetario, dovesse saper fare di calcolo a mente assai meglio di un moderno contabile! Questa pagina prende in considerazione il periodo compreso fra il XVI e il XIX secolo. |
L'elenco che segue descrive brevemente ciascuna delle unità principali di questo sistema, con qualche immagine esemplificativa raffigurante le monete a grandezza naturale.
GIULIO, o PAOLO, o DOPPIO GROSSO
Fra le unità monetarie romane più antiche era il giulio, così chiamato da Giulio II, che l'aveva introdotto nel 1504. Poco dopo, anche Paolo III (1534-49) volle dare il proprio nome a un'unità, e la chiamò paolo, modificando leggermente il valore del vecchio giulio così da far perfettamente equivalere le due monete. Da allora i due nomi vennero usati come sinonimi, sebbene giulio fosse preferito per gli scopi ufficiali, mentre il popolo chiamava questa moneta più spesso paolo. |
Entrambe valevano 10 baiocchi (vedi oltre).
Ma poiché 5 baiocchi formavano anche un grosso (vedi oltre), un terzo nome per il paolo alias giulio era doppio grosso. Alcuni papi batterono anche un doppio giulio (pezzo doppio, del valore di 20 baiocchi). |
1 giulio (paolo) = 2 grossi = 10 baiocchi = 50 quattrini
3 giuli (paoli) = 1 testone
GROSSO, o GROSSETTO, o LUSTRINO
Il suo nome viene dal latino grossus, "grosso, spesso", sebbene il grosso papale avesse completamente perso questa caratteristica. Il nome era approdato anche in altri paesi, ad esempio il groat usato in Inghilterra, e il Groschen austriaco. I romani lo chiamavano familiarmente grossetto, oppure lustrino, perché era la più piccola moneta d'argento del sistema, dal valore di 5 baiocchi, o di ½ giulio. |
1 grosso = 5 baiocchi = 25 quattrini
6 grossi = 3 giuli = 1 testone
BAIOCCO
Questa è un'altra unità di antiche origini, il cui nome fu forse preso in prestito nel medioevo da una moneta merovingia, che aveva la scritta BAIOCAS CIVITAS ("città di Baiocas", l'odierna Bayeux, in Normandia). Originariamente battuto in argento, il suo valore fu progressivamente ridotto, finché nel 1725 Benedetto XIII ne cambiò il metallo, passando al rame. Lo stesso vocabolo baiocco divenne anche un termine generico per "moneta spicciola, di piccolo taglio". |
Ciononostante, esistevano anche monete più piccole (vedi oltre). Diversi multipli e sottomultipli furono battuti nei secoli XVIII e XIX; alla fine del Settecento Pio VI emise undici pezzi diversi relativi a questa unità: 60, 25, 12, 8, 4, 2, 5, 2 ½, 2, 1, e ½ baiocco. I pezzi da 2 e 4 baiocchi erano a volte chiamati muraiola, mentre il 5 baiocchi di Pio VI era anche detto madonnina, e il 2 ½ baiocchi dello stesso papa era detto sampietrino. I valori più piccoli (fino a 5 baiocchi) erano in rame, tutti gli altri erano in mistura. |
1 baiocco = 5 quattrini
30 baiocchi = 6 grossi = 3 giuli = 1 testone ovvero 4 carlini = 2 papetti
QUATTRINO
Nonostante il nome chiaramente derivi da "quattro", suggerendo la quarta parte di un'unità, nel sistema romano questa era la quinta parte di un baiocco, e pertanto rappresentava la moneta più piccola, in rame. Anche il termine quattrino divenne sinonimo di "monetina, spicciolo", (ad esempio in vocaboli come "squattrinato"), e un generico modo di indicare il denaro ("quattrini"). |
150 quattrini = 30 baiocchi = 3 giuli = 1 testone ovvero 4 carlini = 2 papetti
TESTONE
Il nome testone allude al busto del papa che compariva su alcune delle prime emissioni. Venne mantenuto, però, anche nelle emissioni a seguire, nelle quali la testa fu rimpiazzata dallo stemma di famiglia del papa. La moneta era in argento. A partire dal papato di Pio VI (1775-1799), 10 testoni valevano una doppia d'oro (vedi oltre). Lo scambio con lo scudo, invece, non era pratico (3,33 testoni = 1 scudo), a meno di calcolarlo in ragione di 10 testoni = 3 scudi. |
1 testone = 3 giuli = 6 grossi = 30 baiocchi = 150 quattrini ovvero 2 papetti = 4 carlini
10 testoni = 1 doppia d'oro
SCUDO
Era un'altra antica unità in comune con altri paesi, il cui nome derivava dallo scudo araldico su cui compariva lo stemma di famiglia del papa o del re. Su alcune emissioni, però, anziché lo stemma compariva la testa del pontefice. Un altro nome di questa moneta era piastra. |
Originariamente battuta in due diversi metalli, quella d'oro (scudo d'oro) pesava circa 3,30‑3,35 g. Quella in argento era ovviamente molto più grande, dovendo controbilanciare il valore intrinseco della moneta d'oro. Come unità, nel corso del tempo il suo valore aveva subito delle notevoli fluttuazioni, fino a stabilizzarsi a 10 paoli, oppure 100 baiocchi. L'ultimo scudo d'oro fu emesso nel 1738, per poi essere gradualmente rimpiazzato dallo zecchino (vedi oltre). Tutti gli scudi dopo questa data sono solo in argento. |
1 scudo = 10 giuli = 100 baiocchi
3 scudi = 1 doppia d'oro
CARLINO
Il nome di quest'antica unità si deve a Carlo I d'Angiò, che lo emise per la prima volta nel 1278. Dopo la riforma monetaria di Giulio II, nella prima metà del XVI secolo, era stato del tutto abbandonato. Ma dopo oltre duecento anni, nel 1747, Benedetto XIV lo rimise in auge; fra le sue stesse emissioni vi era il ½ carlino, 1 carlino e 2 carlini, tutte in mistura. L'indice di scambio venne fissato a 7 ½ baiocchi. Invece lo scambio contro 1 giulio non era affatto pratico (1,333), a meno che non venisse calcolato in ragione di 3 paoli = 4 carlini. |
Er Zantopadre, pe ddiograzzia, è ll'asso, è un testone, è un papetto de ggiudizzio: e ssi ariviè ssan Pietro a ffà st'uffizio, lui se ne frega e sse lo porta a spasso. |
Grazie al cielo, il Santo Padre è il numero uno, ha una gran testa, è un papa di giudizio: e se San Pietro tornasse a svolgere quest'attività, egli non se ne darebbe cura, farebbe di lui ciò che vuole. |
1 carlino (½ papetto) = 1 ½ grossi = 7 ½ baiocchi
4 carlini (2 papetti) = 3 giuli = 1 testone
QUARTINO
Da non confondersi con quattrino, il nome di questa moneta si riferisce alla quarta parte dello zecchino aureo. Introdotto da Clemente XII (1730-40), questo pezzo pesava 0,69 g, e valeva 5 paoli; ma convertirlo in testoni era scomodo, perché si sarebbe dovuto frazionare nei suoi decimali. |
1 quartino = 5 giuli = 50 baiocchi
4 quartini = 1 zecchino
ZECCHINO
Questa era una moneta aurea presente in molte parti d'Italia (soprattutto in quel di Venezia); lo zecchino romano fu introdotto da Benedetto XIII alquanto tardi, nel 1728. Le sue dimensioni e peso erano quasi identiche allo scudo d'oro (3,40 g contro 3,30-3,35 g, rispettivamente), ma il suo tasso di scambio convenzionale era fissato a 20 giuli, cioè il doppio dello scudo. Quindi in breve tempo quest'ultima moneta fu rimpiazzata dallo zecchino, e lo scudo continuò ad esistere solo in argento. |
1 zecchino = 4 quartini = 20 giuli = 200 baiocchi
3 zecchini = 2 doppie d'oro = 1 quadrupla d'oro
DOPPIA D'ORO
Fu introdotta da Pio VI (1775-99). Nonostante il nome, non era l'esatto doppio di alcuna delle unità. Pesava 5,39‑5,49 g, e valeva 3 scudi. |
1 doppia d'oro = 3 scudi = 10 testoni = 30 giuli = 300 baiocchi
2 doppie d'oro = 1 quadrupla d'oro
QUADRUPLA D'ORO
Anche chiamata 2 doppie, era la moneta di maggior pregio mai coniata a Roma. Fu battuta raramente. Pesava 10,90 g, e valeva 6 scudi (corrispondenti a 60 giuli ovvero paoli), sebbene possiamo immaginare che un tale pezzo di valore circolasse assai poco, essendo prevalentemente usato per la conservazione di grosse somme di denaro, o per transazioni economiche molto importanti, come oggi accade con le banconote da 500 €, o da 1.000 $ statunitensi. |
1 quadrupla d'oro = 2 doppie d'oro = 6 scudi = 20 testoni = 60 giuli = 600 baiocchi
Il diagramma seguente riassume le unità principali di questo sistema, mostrandone il rapporto di scambio.
Quest'altro diagramma, invece, illustra i vari pezzi che vennero emessi ed effettivamente circolarono, sebbene molti di essi lo fecero solo per periodi di tempo limitati. Per ciascuno ne viene mostrato l'equivalente in quattrini (la più piccola subunità) come riferimento più semplice al loro valore.
Tranne le monete dei baiocchi, che provenivano da Gubbio (allora nei territori pontifici), tutte le altre venivano battute a Roma. Nei primi del Cinquecento, dopo una riforma monetaria voluta da Giulio II, la zecca era stata fondata nel rione Ponte, sulla sponda del Tevere opposta a Castel Sant'Angelo, dove rimase fino al 1541. In quegli anni questa zona divenne sede di un'intensa attività finanziaria, come ancora oggi suggeriscono i nomi delle strade: via dei Banchi Vecchi, via dei Banchi Nuovi , via del Banco di Santo Spirito. "Banco" era infatti il tavolo dove il cambiavalute effettuava la pesatura e le equivalenze delle varie monete in circolazione, un termine passato poi, per traslato, a definire l'esercizio commerciale che vi si svolgeva. Una tale concentrazione di primitive banche era dovuta al progetto da parte di Giulio II di trasformare questa zona, fino ad allora popolata soprattutto di locande per i pellegrini diretti a San Pietro, nel nuovo centro commerciale di Roma, obiettivo rimasto in buona parte incompiuto. |
l'antica zecca (Palazzo del Banco di Santo Spirito) |
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Ma qual era il potere d'acquisto delle antiche monete di Roma? Azzardare un paragone con le valute moderne sarebbe estremamente difficile, e forse anche impreciso. Tuttavia, anche in questo caso Giuseppe Gioachino Belli è una preziosa fonte di informazioni, poiché molti dei suoi sonetti fanno riferimento tanto al denaro che ai beni acquistati.
venditore di carne bovina, incisione di Bartolomeo Pinelli, 1831 |
Ad esempio, apprendiamo che il prezzo del pane (a libbra) era di circa 2 baiocchi, mentre quello della carne di manzo era ½ grosso. E sempre a libbra, le alici venivano 9 baiocchi ma il merluzzo 10 ½, il rombo 2 carlini, e spigole, dentici e altri pesci fini 1 papetto. Al mercato, venti carciofi costavano 1 giulio (o paolo), mentre all'osteria il vino veniva 2 quattrini a foglietta (mezzo litro circa). Comunque da alcune parti era possibile pagare a tempo, cioè per 6 o 7 quattrini all'ora si beveva a volontà. I generi casalinghi erano a buon mercato, ma la qualità aveva i suoi costi: per un bicchiere o coppa di vetro buono occorrevano circa 20 baiocchi, e una "canna" di tessuto fine (misura romana, pari a 2,23 metri) costava non meno di 2 testoni. Per il prezzo di 1 giulio si entrava a teatro, mentre chi andava a bagnarsi al fiume poteva affittare un capanno chiuso per 1 carlino (Belli sottolinea che la maggioranza sceglieva quelli aperti, a non più di 1 lustrino (ovvero 1 grosso). |
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Per lo stesso prezzo di 1 grosso si poteva acquistare una rivista mensile: a quei tempi la stampa era ancora costosa! Invece, chi preferiva un altro tipo di ...svago, trovava le prostitute romane alquanto a buon mercato: 1 giulio o 1 papetto ("...da un testone ne avanzerà sempre qualcosa ", annota Belli).
Avere a che fare con la burocrazia costava caro: il solo bollo che veniva applicato sui fogli per renderli ufficiali costava 1 giulio. La tassa per il porto di fucile da caccia era 3 giuli. Ma per gli uomini che volevano sposare una cugina (o un'altra parente di secondo o terzo grado) era necessario uno speciale permesso rilasciato dall'autorità ecclesiastica preposta, che costava quasi 700 scudi! Questa era davvero una cifra enorme, considerato che un cardinale, secondo in gerarchia solo al papa, riceveva un appannaggio annuale di 4.000 scudi, chiamato piatto, che nel 1831 Gregorio XVI aumentò a 4.500 scudi: una promessa fatta prima di divenire papa allo scopo di favorire la propria elezione, disse qualcuno.
un venditore di cocomeri a piazza Navona, acquerello di Achille Pinelli, 1836-37 |
Nei versi di Belli si legge anche come l'affitto dei figli che le famiglie povere praticavano ai mendicanti "professionisti" era di 1 grosso al giorno a testa, mentre le spese di una sepoltura ammontavano a 9 scudi per la lastra di marmo, 6 scudi per le lettere in rilievo e la croce, e così via. Ecco due esempi dei sonetti di Belli che giocano brillantemente col complesso sistema monetario di allora; il primo, che descrive una discussione tra un padre e un figlio, si dice fosse stato ispirato da una reale discussione avvenuta tra Bartolomeo Pinelli, famoso incisore e pittore romano, e suo figlio Achille, anch'egli pittore. |
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Che? stammatina t'ho ddato uno scudo, e ggià stasera nun ciài ppiú un quadrino?! Rennéte conto, alò, ssor assassino: cqua, pperch'io nu li zappo: io me li sudo. Sú: ttre ppavoli er pranzo: dua de vino tra ggiorno; e cquesti ggià nnun ve l'escrudo. Avanti. Un grosso p'er modello ar nudo. Bbe': un antro ar teatrin de Cassandrino. Sò ssei pavoli. Eppoi? Mezzo testone de sigari: un lustrino er pan der cane... E er papetto c'avanza, sor cojjone? Nò, ppranz'e vvino ve l'ho mmesso in cima. Dunque? Ah, l'hai speso per annà a pputtane. Va bbene, via: potevi díllo prima. 30 agosto 1835 |
Cosa? Stamattina ti ho dato uno scudo, e già stasera non hai più un quattrino?! Suvvìa, rendétene conto, scellerato: vieni qui, perché io i soldi non li coltivo: me li sudo. Orsù, tre paoli per il pranzo, due per il vino durante il giorno; e questi non li contesto. Avanti. Un grosso per il modello nudo all'Accademia. Allora: un altro al teatrino di Cassandrino Fanno sei paoli. E poi? Mezzo testone di sigari: un lustrino il pane del cane... E il papetto che avanza, scervellato? No, pranzo e vino li ho contati per primi Dunque? Ah, l'hai speso con le prostitute. Va bene, via: potevi dirlo prima. |
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Tre ppavoli, lo so, ccaro don Diego me l'aricordo, v'ho da dà un testone: m'avanzate tre ggiulî de piggione: trenta bbaiocchi, sí, nnun ve lo nego. Perantro de sti conti io me ne frego, perché ssò ar verde e sto ssenza padrone. E come disce chi nun è ccojjone? « Prima càrita síncipi tabbego ». Dunque, sentite, sor don Diego mio: eccheve du' lustrini, e ffamo patta; e a messa poi v'ariccommanno a Ddio. Già, un giulio solo; e mmó dd'uno se tratta. Tre ne volete? E cquesto è ttre, pperch'io lo bbattezzo pe un tre ccome la matta. 17 gennaio 1847 |
Tre paoli, lo so, caro don Diego, me lo ricordo, vi debbo un testone: vi sono creditore di tre giulii di affitto: trenta baiocchi, sì, non ve lo nego. Peraltro di questi conti non me ne curo, perché sto al verde e sono senza padrone. E come dice chi non è fesso? " Prima charitas incipit ab ego" 1. Dunque, sentite, signor don Diego mio: eccovi due lustrini e siamo pari; e a messa poi vi raccomando a Dio. Già, un giulio solo; per adesso è uno. Ne volete tre? E questo conta per tre, perche io lo faccio valere per un tre, come la matta 2. |
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