NOME
Regola è una corruzione fonetica del latino renula ("sabbia sottile"), da cui deriva anche Arenula, che è il nome di una via e un largo. Infatti un tempo il rione era soggetto alle piene del Tevere, lungo la cui riva orientale si estende in lunghezza; quando infine l'acqua si ritirava, a volte dopo settimane, lasciava le strade coperte di sabbia. Vicolo del Polverone deve il suo nome a questo fenomeno. Nel medioevo la striscia di terra presso la sponda era detta seccula, dallo spesso strato di limo secco lasciato dalle piene; oggi di questa denominazione non rimane traccia, ma negli antichi cataloghi delle chiese, quella di San Biagio (che oggi si trova nella porzione di via Giulia entro i confini del limitrofo Rione Ponte) era indicata come de cantu secula, o monte seculo, e altre varianti ancora, in cui si riconosce il toponimo seccula, benché corrotto.
Verso la fine dell'Ottocento le rive del fiume furono dotate di alti muraglioni per prevenire le inondazioni; ma in epoche precedenti tali femomeni erano tutt'altro che rari.

Nel Medioevo il rione era chiamato Regio Arenule et Chacabariorum, che faceva riferimento ai chacabariis, ovvero i calderai che realizzavano pentole e simili utensili da cucina. Anche due chiese nei pressi ne portano il nome: Santa Maria in Cacaberis, poi italianizzata in Santa Maria de' Calderari, e San Salvatore in Cacabariis (in Sant'Angelo, appena oltre il confine rionale) il cui nome nel XVI secolo fu cambiato in Santa Maria del Pianto.
STEMMA
Un cervo. Regola era un rione famoso per i suoi artigiani; in particolare, i conciatori ed artigiani del cuoio, che usavano soprattutto pelli di cervo per confezionare abiti, erano particolarmente rinomati, donde la scelta dello stemma per questo rione in cui, come anche nel vicino Parione, alcuni toponimi sono rimasti legati alle antiche attività commerciali che vi si riunivano (pettinari, balestrari, catinari, ecc.), una tradizione comprovata anche dall'antico nome del rione (v. sopra).

So’ regolante; faccio er conciapelle,
e so’ de discennenza vaccinaro.
Prima ‘st’azzienna qua stava a le stelle:
chi era conciapelle era mijonaro


Giggi Zanazzo, da Li quattro mejo fichi der bigonzo (1881)

casa del XVI secolo tra
via del Pellegrino e via di Monserrato


CONFINI
Via dei Banchi Vecchi; via del Pellegrino; via dei Cappellari; piazza Campo dei Fiori; via dei Giubbonari; piazza Benedetto Cairoli; via di Santa Maria del Pianto; via del Progresso (former piazza delle Cinque Scole); lungotevere de' Cenci; lungotevere dei Vallati; lungotevere dei Tebaldi; lungotevere di Sangallo; vicolo della Scimia; via delle Carceri.

ELEMENTI DI INTERESSE
(i numeri neri fra parentesi quadre nel testo si riferiscono alla pianta sulla destra)


Nell'antica Roma l'area di Regola faceva parte del Campus Martius (cfr. rione Campo Marzio per i dettagli) ed era la porzione della Regio IX (Circus Flaminius) che seguiva il fiume nella sua metà inferiore.

Il cuore di questo rione, dalla forma lunga e stretta, è piazza Farnese [1], fino alla prima metà del Cinquecento chiamata piazza del Duca, ornata da due fontane gemelle ricavate da antiche vasche provenienti dalle Terme di Caracalla (cfr. la monografia Fontane) e chiusa sul lato a sudovest dal maestoso Palazzo Farnese.


piazza Farnese, con Palazzo Farnese sullo sfondo
Fu commissionato dal cardinale Alessandro Farnese (il futuro papa Paolo III) per la propria famiglia e realizzato in un lungo lasso di tempo, dal 1515 al 1589, quando fu completato il retro. Alle lungaggini dei lavori contribuì anche il sacco di Roma (1527), che impose al cantiere un fermo di ben quattordici anni. Al progetto lavorò a più riprese Antonio Sangallo il Giovane, alla cui morte (1546) subentrò il rivale Michelangelo, che si occupò della loggia e del cornicione e, dopo il 1564, Giacomo Della Porta completò la parte posteriore dell'edificio e l'arco che scavalca via Giulia (v. oltre).
Per la sua imponenza, ma anche per la magnificenza degli affreschi che ne adornano le sale, in particolare quelli di Annibale Carracci, il palazzo (anche popolarmente detto il dado dei Farnese, in riferimento alle sue proporzioni, essendo tanto largo che lungo) viene considerato una delle costruzioni rinascimentali più belle della città, tanto da essere incluso tra le cosiddette "quattro meraviglie" di Roma.
Il motivo a losanghe nella parte superiore della facciata fu ottenuto impiegando mattoni di due diversi colori, giallastri (meno cotti) e rossastri (più cotti). Il magnifico cornicione a cassettoni, che segue il profilo del tetto, com'era nello stile tipico dei palazzi rinascimentali, ha fiori scolpiti, uno diverso dall'altro.
Dopo la morte dell'ultimo esponente dei Farnese, il cardinale Odoacre (1626), il palazzo rimase disabitato, finché nella seconda metà del secolo vi alloggiò per qualche mese Cristina di Svezia (non senza conseguenze, cfr. Roma leggendaria). Passò poi in mano ai Borbone, la famiglia reale del Regno di Napoli, e infine al governo francese, che nel 1874 ne divenne il nuovo proprietario.
un tratto del cornicione floreale

Il governo italiano tornò in possesso di Palazzo Farnese nel 1936, destinandolo a sede dell'Ambasciata di Francia a Roma, quindi preservandone l'extraterritorialità, con un contratto d'affitto per 99 anni al simbolico prezzo di un euro all'anno (mille lire, prima dell'entrata in vigore della valuta europea comune).

Per curiosa coincidenza, il giglio o fiordaliso era l'impresa araldica tanto della casata dei Farnese che della famiglia reale di Francia; tale fiore compare numerose volte sul palazzo (in particolare, nello stemma di Paolo III sopra il balcone), così come pure sull'elemento sommitale delle due fontane gemelle della piazza.

Alle spalle di Palazzo Farnese, quasi parallela al corso del Tevere, corre la celebre via Giulia [2], la prima strada lunga e diritta ad attraversare il vecchio impianto di stradine medioevali, aperta nel 1508 da Donato Bramante per volere di papa Giulio II, seguendo la traiettoria di una preesistente antica strada romana. Per la descrizione del suo tratto settentrionale si veda il rione Ponte; invece nella parte meridionale, che appartiene a Regola, buona parte degli edifici interessanti si concentrano alle spalle di Palazzo Farnese.

il Mascherone di via Giulia →
Qui, appoggiata al muro, si trova la fontana dei primi del Seicento conosciuta come il Mascherone di via Giulia [3], realizzata riutilizzando marmi romani antichi; alla sua sommità, l'ennesimo giglio farnesiano in bronzo ricordava ai passanti chi fossero i signori di riferimento in quest'area.
Appena pochi metri più in là via Giulia è attraversata dall'arco dei Farnese [4], un passaggio sopraelevato che collega il retro dello storico palazzo ai fabbricati sul lato opposto della strada. Queste palazzine basse hanno preso il posto di un più antico complesso chiamato i Camerini Farnesiani, dove la famiglia conservava una ricca collezione di statue e di altre opere d'arte. Gli stessi camerini erano decorati con pitture di artisti famosi, quali Annibale Carracci, Domenichino e Giovanni Lanfranco; solo tre piccoli affreschi di quest'ultimo autore si salvarono quando i camerini furono abbattuti ed ora si trovano nella vicina chiesa di Santa Maria dell'Orazione e Morte (cfr. più in basso).

l'arco dei Farnese che attraversa via Giulia
In realtà, l'arco dei Farnese era nato come primo tratto di un vero e proprio ponte privato che, nel progetto iniziale, avrebbe dovuto attraversare il Tevere, collegando il palazzo di famiglia ad un'altra ricca residenza situata sulla sponda opposta del fiume, che i Farnese avevano acquistato dai Chigi nel 1580 e da allora ribattezzata Villa Farnesina (cfr. rione Trastevere). Ma il progetto non fu mai portato a compimento e l'arco rimase una semplice via di passaggio verso i depositi della collezione d'arte.
Palazzo Farnese (a destra) e Villa Farnesina (a sinistra)
evidenziati in giallo, avrebbero dovuto essere collegati
da un ponte privato (linea tratteggiata), mai completato

Adiacente all'arco è la piccola chiesa di Santa Maria dell'Orazione e Morte. Il compito della congregazione per cui fu originariamente costruita nel 1575 era quello di andare in campagna e raccogliere i numerosi cadaveri dei contadini e dei poveri che giacevano all'aria aperta, per dare loro una seppur modesta sepoltura. La chiesa stessa era provvista di una cripta adibita a cimitero per i numerosi confratelli. Le forme attuali dell'edificio risalgono al 1733-37, quando fu completamente ricostruito ed ampliato.
Le decorazioni della chiesa fanno esplicitamente riferimento al pietoso e alquanto macabro compito della congregazione, con la facciata disseminata di teschi, che si ripetono all'interno, mentre allegorie del tempo (clessidre alate) e della morte (scheletri) compaiono sulle due antiche cassette per le offerte che ancora guardano via Giulia.

teschi e una clessidra alata sul portale della chiesa
Il cimitero, un tempo si estendeva sotto la chiesa arrivando quasi fino al vicino Tevere; poi, nei primi anni del XX secolo, la messa in posa dei muraglioni per prevenire le frequenti alluvioni richiese un drastico accorciamento della cripta, che andò in larga parte perduta.

una delle cassette delle elemosine (1694)
Ancora oggi molti teschi sono tenuti in bella mostra e le lampade che danno luce al locale sono realizzate con ossa umane. Ciò non dovrebbe sorprendere: a Roma, fin dall'età barocca diverse istituzioni religiose erano solite fare apertamente mostra di simboli di morte piuttosto vistosi sulle pareti e sui soffitti delle cripte; tale uso si protrasse fino ai primi dell'Ottocento. Attualmente solo due chiese conservano esempi di tale forma d'arte, ora considerata bizzarra e macabra: una è la suddetta chiesa di Santa Maria, l'altra è l'ancor più famosa chiesa dei Cappuccini in via Veneto (cfr. Roma leggendaria).

La facciata dell'edificio è adiacente, sulla destra, ad un palazzo del Cinquecento, poi ampliato da Francesco Borromini nel secolo successivo, le cui estremità sono scandite da due lesene culminanti in una testa di falco col busto muliebre.

un angolo della cripta
In origine apparteneva ai Ceci, ma fu presto venduto agli Odescalchi, per poi passare ai Farnese ed infine, attorno al 1635, essere acquistata dai Falconieri, di cui l'inconsueta scultura era chiaramente l'impresa di famiglia. Furono loro a commissionare la ristrutturazione del palazzo al grande architetto ticinese.

una delle teste di falco di Palazzo Falconieri
Il busto femminile di cui le teste di falco sono curiosamente dotate, secondo alcuni, sarebbe stato un riferimento alle esponenti della famiglia Falconieri, che andavano famose per la loro avvenenza. Nei primi del Novecento la proprietà fu venduta ad un erudito ungherese, che in seguito la lasciò in eredità alla propria nazione, per cui dal 1927 Palazzo Falconieri è sede dell'Accademia di Ungheria a Roma.

A circa 250 metri, sul confine col rione Ponte, un possente edificio ha le finestre chiuse da grosse sbarre di ferro. Queste erano le Prigioni Nuove [5], "che papa Innocenzo X costruì nel 1650 alla giustizia e alla clemenza, per una custodia dei carcerati più sicura e più mite", come recita una grossa targa in latino sopra l'ingresso. Tuttavia l'edificio entrò in funzione come istituto di pena solo a partire dal 1658, in quanto poco dopo la sua costruzione a Roma scoppiò la peste e per diversi anni il fabbricato fu utilizzato come lazzaretto, per tenere i malati isolati dal resto della popolazione. Oggi le Prigioni Nuove ospitano uffici della DIA (Direzione Investigativa Antimafia).
Anche l'edificio adiacente ha le sbarre alle finestre, ma si trova appena oltre il confine rionale (vedi Ponte).

Un'altra strada storica che origina da piazza Farnese è via di Monserrato, parallela a via Giulia, su cui si affacciano molte case alte e strette, gran parte delle quali risalenti al Cinquecento, se non persino ad un'epoca precedente.
Una di esse attira particolarmente l'attenzione per le sue forme tipicamente medievali: è la casa di Santa Caterina da Siena (XIV secolo); la targa sopra la porta, però, informa che questo edificio non è che una fedele copia di quello originale abitato dalla santa a Siena, che reca la data 30 aprile 1912.

Quasi sullo stesso punto, ma dal lato opposto della strada, una targa affissa nel 1999 ricorda che cinquecento anni fa in quel luogo sorgeva Corte Savella, un tribunale dalla pessima fama, con una prigione situata nei sotterranei, temutissimo in tutta Roma per il duro trattamento riservato ai detenuti, tanto in corso di giudizio che durante la detenzione. Cessò l'attività quando il suddetto edificio delle Prigioni Nuove fu aperto a via Giulia. In seguito Corte Savella fu demolita, per cancellare ogni traccia di una così tetra istituzione.

le Prigioni Nuove di via Giulia

All'estremità opposta di via di Monserrato si apre la piccola piazza dei Ricci [6], dove sorge il grazioso palazzetto omonimo, del XVI secolo, la cui facciata è decorata con affreschi purtroppo alquanto deteriorati e il cui retro guarda verso via Giulia.

Palazzo Ricci
Più che per la famiglia Ricci, il palazzo è ricordato soprattutto per essere stato il luogo dove Paolo III, a detta delle malelingue, incontrava sua figlia Costanza Farnese con cui si diceva avesse rapporti incestuosi. La diceria, di cui non vi è prova storica, scaturì probabilmente dall'enorme influenza che la donna aveva sul pontefice, suo padre naturale), al punto che lo scrittore e poeta contemporaneo Pietro Aretino lo accusò di essere "a' figli di tua figlia padre e nonno". Due secoli dopo vi si dava ancora credito, se Benedetto XIV ebbe a commentare sul predecessore, con pungente ironia: "Strabocchevole l'amore suo verso la sua famiglia".

Dietro l'edificio, al termine di un vicolo che da via Giulia porta verso il Tevere, sorge la piccola chiesa di Sant'Eligio degli Orefici [7], progettata da Raffaello nel 1516 per la corporazione degli orefici, riconoscibile per la graziosa cupola emisferica.

← Sant'Eligio degli Orefici

In un piccolo slargo nelle vicinanze, chiamato piazza della Quercia dal secolare albero che vi cresce nel mezzo, sorge un altro edificio importante e riccamente ornato, Palazzo Spada [8], la cui facciata è decorata con fregi e statue di personaggi famosi della Roma antica. Costruito per il cardinale Capo di Ferro nel 1540, un secolo dopo fu acquistato da un altro cardinale, Bernardino Spada, che commissionò a Francesco Borromini di ampliare e modificare l'edificio originario. Ospita un'importante collezione di opere di pittura rinascimentali e barocche: la Galleria Spada.

Palazzo Spada è famoso soprattutto per la sua galleria prospettica: si tratta di un corto passaggio creato da Borromini per collegare il cortile attorno al palazzo ad uno spazio più esterno ricavato dall'ampliamento del palazzo, la cui lunghezza effettiva è di circa 9 metri, ma disegnato e disposto in tal maniera che per effetto ottico sembra lungo quattro volte tanto. Un'altra conseguenza dell'effetto prospettico è che una persona situata all'estremità opposta della galleria appare gigantesca. Questo effetto ottico semplice ma davvero strabiliante dimostra come gli architetti barocchi sapessero divertire i loro committenti, fondendo l'originalità alle conoscenze tecniche e scientifiche; infatti per realizzare questa galleria Borromini si avvalse della collaborazione di un valente matematico.
Palazzo Spada
Davanti al palazzo si trova una graziosa fontana (cfr. Fontane), anch'essa ideata da Borromini, con una nicchia occupata da una ninfa poggiante su un antico sarcofago; il muro alle sue spalle è dipinto con un finto bugnato, un artificio teatrale di gusto tipicamente barocco.


← la galleria prospettica di Borromini e il suo schema in sezione ↑


Da piazza della Quercia origina lo stretto vicolo delle Grotte. [9]
Qui nel XVIII secolo si trovava una casa di piacere dove il famoso esoterista Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro, conobbe la futura moglie Lorenza, che ancora oggi ne riporta qui il fantasma nelle notti di luna (si veda in proposito la sezione Roma leggendaria). Al numero 10 dello stesso vicolo è la casa natale del celebre attore romano Aldo Fabrizi, ricordato da una targa.

Riprendendo la stretta via Capo di Ferro in direzione opposta a Palazzo Spada si incontra un fabbricato ha al piano terra una parete di mattoni a vista con antiche colonne inserite nella semplice e irregolare muratura, uno schema architettonico molto comune nell'edilizia medievale.
Voltando a sinistra dopo quest'ultima e passando sotto un arco si raggiunge la piazza dove si leva il grande Palazzo del Monte di Pietà [10], che ospita il banco dei pegni. Fu fondato a Roma come ente pubblico nel 1539 (in altre città italiane ed europee istituzioni analoghe esistevano già da tempo), per fronteggiare i numerosi casi di usura; chi aveva bisogno di contanti poteva ottenere un prestito consegnando in pegno beni materiali, che potevano essere riscattati dietro restituzione della somma prestata, senza alcun interesse. Ne era a capo una congregazione religiosa e il capitale iniziale fu raccolto attraverso le elemosine. Avendo l'iniziativa riscosso un buon successo, qualche decennio dopo fu necessario ampliare ancora la sede, adibendo a tal proposito una parte dell'edificio sul lato nordovest della piazza, dove fino al 1635 circa visse la famiglia Barberini, prima della costruzione del famoso palazzo nel rione Trevi. Il collegamento col corpo centrale fu assicurato dall'arco anzidetto, un passaggio sopraelevato che scavalca la via detta infatti dell'Arco del Monte. La facciata dell'edificio principale è ornata da una fontana dei primi del Seicento.

casa medievale in via Capo di Ferro
L'istituto fu fondato in via dei Banchi Vecchi (all'estremità settentrionale del rione); da lì passò nel 1585 a via dei Coronari (rione Ponte); infine nel 1604 papa Clemente VIII lo trasferì nuovamente in Regola, nella sua sede attuale; lo stemma degli Aldobrandini sulla facciata si riferisce al suddetto pontefice. La struttura comprende un intero isolato, formato da due palazzine della seconda metà del Cinquecento, che in precedenza appartenevano a un cardinale.

la casa di Alessandro Lancia
L'assoluta sicurezza dei locali del Monte di Pietà dove venivano custoditi i beni impegnati (si noteranno le spesse sbarre alle finestre tutt'ora presenti), nonché la costante vigilanza che esercitava un plotone di guardie svizzere destinato specificamente a questa funzione, fece sì che il banco dei pegni cominciasse a funzionare anche come banco di deposito valori e oggetti preziosi.
Tale funzione si protrasse nel tempo, anche dopo la fine dello Stato Pontificio; ancora alla fine del XX secolo era abitudine di molti romani lasciare al Monte di Pietà i propri oggetti più preziosi prima di partire per le vacanze estive (anziché ricorrere ad un istituto di custodia o ad una cassetta di sicurezza in banca, certamente più costosi), per poi riscattarli al loro ritorno.


Poco oltre, al numero 23 della stretta via San Salvatore in Campo si trova una graziosa casa rinascimentale [11], con al primo piano un grosso stemma affrescato recante i sei gigli dei Farnese, tra due finestre a tutto sesto. Questa era l'abitazione di Alessandro Lancia, un cortigiano di papa Paolo III, che fece dipingere sulla propria casa le imprese di famiglia del pontefice in suo onore. Il nome del proprietario si trova inciso sull'architrave della porta. Lo stesso Lancia possedeva anche una seconda casa, al numero 9 di via di Marforio, scomparsa alla fine dell'Ottocento per la costruzione del Vittoriano (rione Campitelli).

Pochi metri più avanti, in fondo a via Santa Maria in Monticelli così chiamata dalla piccola chiesa medievale, si trova un interessante complesso di case che risalgono al XIII secolo, dette "case di San Paolo" [12], dalla popolare credenza che fossero state abitate dal santo.

le cosiddette case di San Paolo
Adiacente a quest'ultimo complesso è il Ministero di Giustizia, un palazzone disegnato da Pio Piacentini, costruito tra il 1914 e il 1932, con la facciata su via Arenula lavorata per metà a bugnato.

l'arco sul retro di Palazzo Cenci
Attraversando la trafficata via Arenula, si raggiunge via dei Cenci dove, proprio al confine col rione Sant'Angelo, sorge Palazzo Cenci-Bolognetti [13]. Costruito alla metà del Cinquecento sulle rovine di una preesistente fortezza, vi nacque e visse Beatrice Cenci, la giovane eroina popolare le cui tristi vicende fanno ormai parte della storia di Roma (cfr. Roma leggendaria).