~ la lingua e la poesia ~
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GLI ANTENATI DEL DIALETTO DI ROMA - II

CRONICA
VITA DI COLA DI RIENZO
Bartolomeo di Iacovo da Valmontone (?), 1357-58



(salta l'introduzione)


La Cronica è una tipica cronaca medievale, redatta da un autore per lungo tempo indicato come "anonimo romano" e solo di recente identificato nella persona di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone.
Narra di vari fatti storici, dall'apparizione di una cometa nel 1337 all'incoronazione di Carlo IV di Boemia come imperatore del Sacro Romano Impero nel 1355; gli anni, frequentemente riportati nel testo, consentono una precisa datazione anche della stessa cronaca.
Purtroppo otto capitoli degli originali ventotto sono andati perduti, ma si sono conservati oltre due terzi dell'opera originale.

La Cronica è anche nota come Vita di Cola di Rienzo perché la seconda metà del testo è una biografia del famoso tribuno di Roma; il capitolo più lungo, il XVIII, è completamente dedicato a lui e viene citato anche nei capitoli successivi.

Nato da famiglia modesta, figlio di un taverniere e di una lavandaia, Cola (Nicola) si avvia a essere uno stimato uomo di lettere. Mosso dalle sue idee visionarie di una restaurazione delle antiche glorie cittadine, diventa assai popolare tra la gente comune, a cui teneva discorsi contro la corruzione del governo e contro le ingiustizie sociali, facendosi con ciò nemiche le principali famiglie nobili (Colonna, Caetani, Orsini, Savelli) che si contendevano il potere.
Durante gli anni del periodo avignonese, coi papi lontani da Roma, la città languiva a causa di una vera e propria guerra civile tra le famiglie nobili, in cui però rimaneva coinvolta tutta la popolazione comune. Ogni giorno si combatteva, si rubava, si stuprava, si aggredivano e si uccidevano i pellegrini, e anche i preti staievano per male fare, dice la cronaca.
Cola sobilla la popolazione a insorgere, teorizzando l'unificazione di molte città sotto un'unica autorità nazionale. Prepara quindi in segreto una rivolta, che mette in atto il 20 maggio 1347. Accompagnato dal legato del papa Clemente VI e da cento uomini armati del popolo, sale al Palazzo Senatorio in Campidoglio e prende possesso del governo della città, promulgando una nuova costituzione in quindici punti. Ai baroni invia quindi l'ordine di lasciare Roma. Questi ultimi tentano di reagire, ma le forze che Cola ha radunato hanno ragione dei soldati delle famiglie nobili, che finiscono in gran parte impiccati o decapitati. Cola allora proclama sé stesso e il legato papale tribuni del popolo, costringendo i baroni a giurargli pubblicamente obbedienza.

la casa medievale dei Crescenzi, popolarmente detta
di Cola di Rienzo; la sua vera casa natale si trovava
in realtà a breve distanza, all'incirca presso
l'attuale piazza delle Cinque Scole

Inizialmente il potere di Cola si rafforza; il suo buon governo riscuote i favori della popolazione, come pure quelli delle altre città, e anche di letterati tra cui Petrarca.
Ma in breve è costretto a imporre nuove tasse, sempre più pesanti, perdendo il favore della gente. Il suo regime assume allora un carattere dispotico, a tratti perfino sanguinario. Il popolo non vede di buon occhio neppure il lusso di cui Cola ama circondarsi. Infine è lo stesso Clemente VI, che prima lo appoggiava, ad accusare Cola di eresia. A dicembre dello stesso anno, capendo che il vento è cambiato, si consegna volontariamente prigioniero a Castel Sant'Angelo. Non molto dopo, però, da qui fugge, andando in esilio.


un ritratto immaginario di Cola di Rienzo
Nel 1350 si rivolge al re Carlo IV di Boemia, dichiarandosi figlio illegittimo di un suo avo; ma il re non gli presta fede e lo fa rinchiudere nelle sue prigioni. Da Avignone, Clemente VI ne reclama la custodia e la ottiene, ma muore poco dopo. Il suo successore Innocenzo VI decide di rilasciarlo.
Tornato a essere un prezioso alleato del papa, nel 1354 Cola rientra a Roma, dove viene accolto trionfalmente e acclamato, al punto di riconquistare il titolo di tribuno per la seconda volta. Ma il suo governo stravagante e improvvido lo porta presto alla necessità di imporre ancora una volta tasse, e la popolazione si ribella di nuovo.
L'8 ottobre dello stesso anno segna l'epilogo della vicenda. La gente inferocita circonda Palazzo Senatorio sul Campidoglio al grido di "muoia Cola di Rienzo, il traditore che ha messo la tassa!", dando fuoco alle porte con olio e pece. Indeciso se fronteggiare da eroe la rivolta o fuggire, Cola sceglie quest'ultima soluzione. Pensa di calarsi da una finestra con le tovaglie legate, ma alla fine decide di travestirsi: si taglia la barba, si annerisce il volto e indossando un mantello da plebeo e una coperta per proteggersi dalle fiamme prova a uscire. Ma dimentica di togliersi i braccialetti d'oro, e viene così riconosciuto e catturato. Nella stessa piazza, davanti ad una folla in tumulto, viene ucciso. La gente fa poi strazio del suo cadavere, che viene trascinato in strada, mutilato e lasciato esposto per alcuni giorni, finché ciò che resta di lui viene dato alle fiamme, perché non ne rimanga più alcuna traccia.
Questi eventi sono narrati nel Capitolo XXVII con una ricchezza di dettagli che solo un testimone oculare avrebbe potuto conoscere.

l'antico gruppo scultoreo presso il quale
in Campidoglio venivano eseguite le
sentenze capitali: il "luogo del leone"

Il linguaggio usato nel testo non si discosta molto da quello di Le miracole de Roma, di circa un secolo precedente. È lecito ipotizzare che chiunque redigesse guide e cronache, autori colti se si considera la netta prevalenza di analfabeti tra la popolazione di allora, fosse verosimilmente a conoscenza dei pochi lavori già pubblicati in volgare.
Quest o idioma rappresenta il cosiddetto dialetto di prima fase; sebbene ancora molto distante dal romanesco così com'è conosciuto da molti, certamente già riflette alcuni aspetti del vernacolo parlato, così come però vi si riconoscono ancora diverse reminiscenze latine; infatti alcune espressioni sono praticamente in latino, e vengono anche citati classici latini; ciò è un'altra prova che testimonia il livello culturale del cronista.
La seguente tabella mostra qualche evidente esempio di come alcuni vocaboli di questo volgare erano già vicini al dialetto moderno:

volgare  (XIV sec.)
dialetto romano
italiano
volenno volenno volendo
essenno essenno essendo
fonnavano fonnaveno fondavano
Lommardia Lommardia Lombardia
calla calla calda
lassa lassa lascia
iva iva o annava andava
sonata sonata suonata
perzone perzone persone
se pozza se pòzza si possa
penzao penzò pensò
Pavolo Pavolo o Paolo Paolo
de fòra de fòra di fuori
robba robba roba

Altre similitudini si trovano col dialetto napoletano, soprattutto nella trasformazione in dittongo delle vocali toniche aperte E (→ IE) e O (→ UO), come in:
grieco (greco)

tiempo (tempo)

copierto (coperto)

uocchio (occhio)

puopolo (popolo)

Campituoglio (Campidoglio)
e nel betacismo, cioè il cambio della B in V, o assai più di rado viceversa, come in:
vastone (bastone)

vraccia (braccia)

vattaglie (battaglie)

varva (barba)

abocati (avvocati)

Ma alcuni termini mostrano collegamenti anche con dialetti meridionali diversi, come forficare (tagliare in modo maldestro), un verbo tutt'ora esistente in salentino.



Per ragioni di spazio vengono mostrati solo brani di alcuni capitoli. Le parentesi quadre [...] indicano parti andate perdute, o le parti omesse.
Il testo integrale (ma senza versione in italiano) è disponibile presso il sito Medioevo.Roma.



Prologo e primo capitolo,

dove se demostra le rascione
per le quale questa opera fatta fu.

Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. 'Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria [...] tristezze, disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali insassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora triomfali in soli[i]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in Arimino. Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e·lli fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mannifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma.
[...]



Prologo e primo capitolo,

in cui si espongono i motivi
per cui fu scritta quest'opera.

Sostiene il glorioso dottore messer sant'Isidoro, nel libro delle Etimologie 1, che il primo uomo di Grecia a disporre della scrittura fu un greco il cui nome era Cadmo. Prima del suo tempo non vi era scrittura. Dunque, quando vi era necessità di tramandare qualcosa nel tempo, non si poteva scrivere. Quindi le commemorazioni si facevano con sculture di pietra ed epitaffii, che si collocavano nei luoghi famosi dove abitava molta gente, oppure si collocavano là dove erano state compiute le gesta: ad esempio una grande battaglia, oppure vittoria [...] tristezze, sconfitte scolpivano [...] e aitri animali di pietra oppure gente armata, come segno di tale commemorazione. E fondavano queste pietre in quei luoghi dove le cose erano avvenute, in segno di perpetua memoria. Non ne scrivevano libri, in quanto presso i Greci non vi era la scrittura. E tale tecnica fu mantenuta dai Romani in tutta l'Italia e in Francia, e soprattutto a Roma; in quanto facendo conoscere ai loro successori [...] i loro fatti, vi eressero archi trionfali in segno di potere con battaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, come se ne trovano adesso in Persia e a Rimini. Da quando Cadmo cominciò a disporre della scrittura, la gente cominciò a scrivere le cose e i loro fatti a beneficio della debolezza di memoria, e soprattutto i fatti principali e magnifici: come Tito Livio scrisse il libro della fondazione di Roma fino al tempo di Ottaviano, come Lucano scrisse dei fatti dei Cesari, Sallustio e molti altri scrittori non lasciarono perire la memoria di molte cose del passato di Roma.
[...]

1. - Le Etymologiae, redatte attorno al 620-630 da Isidoro, arcivescovo di Siviglia, sono una specie di voluminosa enciclopedia universale, largamente basata su opere di autori precedenti, che per buona parte del medioevo rappresentò il testo di riferimento per eccellenza in tutti i campi dello scibile.

Cap. VIII

Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione de missore Mastino tiranno per li Veneziani.

Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una [...] fatta nella sovrana parte de l'airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti. In bona fe', ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta.
[...]


Cap. VIII

La cometa che apparve nella regione di Lombardia e della caduta di messer Mastino tiranno dei Veneziani.

Correva l'anno del Signore 1337, del mese di agosto, e apparve nella regione di Lombardia una cometa moito splendente e bella e durò tre giorni. Poi sparì nell'atmosfera. Questa cometa sembrava essere una stella assai più lucente delle altre e distendeva dietro di sé una chioma distinta, appuntita come una spada e la punta pendeva sopra Verona. Questa chioma stava su uno dei lati. Non andava né in sù né in giù, ma si stendeva diritta come fosse una fiamma di fuoco. Ciò che questa novità voleva significare catturò molto l'attenzione della gente. Dice Aristotele, nella Meteora, che questa non è una stella vera; è anche una [...] fatta nella parte più alta dell'atmosfera e si fa di materia umida e calda, che sale in alto e arde e dura tanto quanto la materia di cui è costituita. Dice anche che questa non appare mai se non per segnalare grandi novità, soprattutto riguardo ai governanti della terra e sconvolgimenti di nazioni e morte e caduta dei potenti. Fu davvero così; poiché, appena questa scomparve, per la Lombardia si sparse la notizia che Padova era perduta.
[...]
Cap. IX

Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi.

Po' questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno moito umido, moito piovoso. Abunnaro moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta neve, che esmesuratamente coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo granne peso che·lla neve faceva. Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra de casa a fare sio mestieri e procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che fuoro seminati fuoro perduti, perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se potevano procurare. Donne sequitao sterilitate e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì orribile che forte cosa pare a contare, a credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma XXI libre de provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure perzone, 'nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona fe', questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo pane. Fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne era la pecunia che se numerava per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l'erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva.
[...]

busto di Cola di Rienzo nei giardini del Pincio
Cap. IX

Dell'aspra e crudele carestia, della battaglia di Parabianco in Lombardia e dei nuovi modi di vestire.

In seguito a questa cometa, della quale si è detto sopra, fu un anno molto umido, molto piovoso. Abbondarono le malattie reumatiche in gran quantità e molti catarri fra la gente. E per tre inverni vi fu tanta neve da ricoprire le città in modo smisurato. Molte case, molti tetti a Bologna caddero per il grande peso che la neve vi esercitava. Anche le estati erano umide, al punto che gli uomini non potevano uscir fuori di casa a fare il proprio lavoro e a procacciarsi il necessario. I campi non furono lavorati. Il grano e ogni legume che era stato seminato andarono perduti, in quanto affogavano per l'eccesso di umidità e non si potevano procurare. Donde ne seguì la sterilità [dei terreni] e cattivo raccolto. E a causa di quel cattivo raccolto persistette una così orribile carestia che è cosa difficile da raccontare e da credere. Questa carestia si ebbe ovunque nel mondo. A Roma il grano fu venduto a 21 libbre di provesini il rubbio [circa 200 kg]. Correva l'anno del Signore 1338. Scrive Tito Livio che nel passato si ebbe una carestia nella contrada di Roma, così terribile che molta gente, numerose persone, la vita preferivano perderla piuttosto che continuare a vivere affamati. Le donne si avvolgevano il cappuccio davanti agli occhi per non assistere alla propria morte e si gettavano nel fiume Tevere e là morivano affogate e morendo ponevano rimedio alla fame. Ad essere onesti, io non vidi avvenire questo a quei tempi. Ma vi furono infinite donne che rinunciarono al proprio onore per avere del pane. Molta gente vendette le proprie franchige [privilegi dinastici] per il pane. Furono venduti palazzi, possedimenti di campi e vigne e dati via a prezzi irrisori, per avere del pane. Erano grandi le quantità di denaro che occorrevano per avere un po' di provviste. Molta gente mangiava i cavoli cotti senza pane. La povera gente mangiava i cardi cotti col sale e le erbe dei maiali. Tagliavano la gramigna e le piccole radici dei cardi marini, le cuocevano con la mentuccia e le mangiavano. Andavano anche per i campi mendicando le rape e le mangiavano. Vi fu anche un certo padre che ogni giorno a ciascuno dei figli dava da mangiare una rapa come se fosse stata pane.
[...]



Cap. XVIII

Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto.

Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Moito usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: "Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!" Era bello omo e in soa vocca sempre riso appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che un sio frate fu occiso e non fu fatta vennetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sio frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio procaccio gìo in Avignone per imbasciatore a papa Chimento de parte delli tredici Buoni Uomini de Roma. La soa diceria fu sì avanzarana e bella che sùbito abbe 'namorato papa Chimento. Moito mira papa Chimento lo bello stile della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se destenne Cola e dice ca·lli baroni de Roma so' derobatori de strade: essi consiento li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contra li potienti. Puoi, a petizione de missore Ianni della Colonna cardinale, venne in tanta desgrazia, in tanta povertate, in tanta infirmitate, che poca defferenzia era de ire allo spidale. Con sio iuppariello aduosso stava allo sole como biscia. Chi lo puse in basso, quello lo aizao: missore Ianni della Colonna lo remise denanti allo papa. Tornao in grazia, fu fatto notaro della Cammora de Roma, abbe grazia e beneficia assai. A Roma tornao moito alegro; fra li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a usare sio offizio cortesemente; e bene vedeva e conosceva le robbarie delli cani de Campituoglio, la crudelitate e la iniustizia delli potienti. Vedeva pericolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino che·llo volessi aiutare. Imperciò se levao in pede una fiata nello assettamento de Roma, dove staievano tutti li consiglieri, e disse: "Non site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo sangue della povera iente e non la volete aiutare". Puoi ammonìo li officiali e·lli rettori che devessino provedere allo buono stato della loro romana citate.
[...]

Cap. XVIII

Le grandi imprese che fece Cola di Rienzo, che fu augusto tribuno di Roma.

Cola di Rienzo fu di basso lignaggio. Il padre era taverniere, ed aveva nome Rienzi. La madre si chiamava Maddalena e viveva del mestiere di lavandaia e portatrice d'acqua. Nacque nel rione della Regola. La sua abitazione era accanto al fiume, fra i lavoratori dei mulini, nella strada che va verso Regola, dietro a San Tommaso, sotto il tempio degli Ebrei. In gioventù si nutrì col latte dell'eloquenza, buon grammatico, migliore retorico, buon autore. Oh, come e quanto era veloce come lettore! Leggeva molto Tito Livio, Seneca e Tullio e Valerio Massimo. Amava molto raccontare le magnificenze di Giulio Cesare. Per tutto il giorno si specchiava nei rilievi marmorei che giacciono intorno a Roma. Non vi era che lui in grado di leggere gli antichi epitaffi. Traduceva in volgare tutti i testi antichi. Interpretava in modo corretto queste figure di marmo. Oh, come diceva spesso: "Dove sono questi buoni Romani? Dov'è la loro somma giustizia? Se potessi trovarmi ai tempi in cui vissero costoro!". Era un bell'uomo e sulla sua bocca appariva sempre un riso fantastico. Costui fu notaio. Accadde che un suo fratello fu ucciso e la sua morte non fu vendicata. Non lo poté aiutare. Meditò a lungo di vendicare il sangue di suo fratello. Meditò lungamente di rendere retta la citta di Roma mal governata. Per proprio lavoro andò ad Avignone come ambasciatore di papa Clemente VI da parte dei tredici Buoni Uomini (governatori) di Roma. Il suo eloquio fu di tale levatura e così bello che entrò subito nelle grazie di papa Clemente. Il papa ammira molto il bello stile della lingua di Cola. Lo vuole incontrare ogni giorno. Allora Cola, aprendosi, dice che i baroni di Roma sono ladri di strada: essi consentono gli omicidi, le ruberie, gli adulteri, ogni male; essi vogliono che la loro città giaccia desolata. Convinse molto il papa contro i potenti. Poi, su richiesta del cardinale messer Giovanni della Colonna, cadde in grande disgrazia, in grande povertà, in grande malattia, che poco mancava finisse all'ospedale. Col suo giacchetto addosso stava al sole, come una biscia. Chi lo fece decadere, lo fece anche risorgere: messer Gianni della Colonna lo riabilitò davanti al papa. Tornò in grazia, fu fatto notaio della Camera di Roma, ebbe fortuna e molti benefici. A Roma tornò con lo spirito alto; minacciava fra i denti. Essendo tornato a corte, cominciò ad usare la sua posizione con spirito nobile; e bene vedeva e conosceva le ruberie dei cani di Campidoglio, la crudeltà e l'ingiustizia dei potenti. Vedeva il Comune in grande pericolo e non si trovava un buon cittadino che lo volesse aiutare. Quindi una volta si alzò in piedi nell'assemblea di Roma, dove stavano tutti i consiglieri e disse: "Non siete buoni cittadini, voi che succhiate il sangue alla povera gente e non la volete aiutare". Poi ammonì gli ufficiali e i rettori a voler provvedere al buono stato della loro città di Roma.
[...]
Cap. XXVII

Como missore Nicola de Rienzi tornao in Roma e reassonse lo dominio con moite alegrezze e como fu occiso per lo puopolo de Roma crudamente.

Currevano anni Domini MCCCLIII[I], lo primo dìe de agosto, quanno Cola de Rienzi tornao a Roma e fu receputo solennissimamente. Alla fine a voce de puopolo fu occiso. La novella fu per questa via. Puoi che Cola de Rienzi cadde dallo sio dominio, deliverao de partirese e ire denanti allo papa. 'Nanti la soa partita fece pegnere nello muro de Santa Maria Matalena, in piazza de Castiello, uno agnilo armato coll'arme de Roma, lo quale teneva in mano una croce. Su la croce staieva una palommella. Li piedi teneva questo agnilo sopra lo aspido e lo vasalischio, sopra lo lione e sopra lo dragone. Pento che fu, li valordi de Roma li iettaro sopra lo loto per destrazio. Una sera venne Cola de Rienzi secretamente desconosciuto per vedere la figura 'nanti soa partenza. Viddela e conubbe che poco l'avevano onorata li valordi. Allora ordinao che una lampana li ardessi denanti uno anno. De notte se partìo e gìo luongo tiempo venale. Anni fuoro sette. Iva forte devisato per paura delli potienti de Roma. Gìo como fraticiello iacenno per le montagne de Maiella con romiti e perzone de penitenza. Alla fine se abiao in Boemia allo imperatore Carlo, della cui venuta se dicerao, e trovaolo in una citate la quale se appella Praga. Là, denanti alla maiestate imperiale, inninocchiato parlao prontamente. Queste fuoro soie paravole e sio loculento sermone denanti a Carlo re de Boemia, nepote de Enrico imperatore, novellamente elietto imperatore per lo papa: "Serenissimo principe, allo quale è conceduta la gloria de tutto lo munno, io so' quello Cola allo quale Dio deo grazia de potere governare in pace, iustizia, libertate Roma e·llo destretto. Abbi la obedienzia della Toscana, Campagna e Maretima. Refrenai le arroganzie delli potienti e purgai moite cose inique. Verme so', omo fraile, pianta como l'aitri. Portava in mano lo vastone de fierro, lo quale per mea umilitate convertiei in vastone de leno, imperciò Dio me hao voluto castigare. Li potienti me persequitano, cercano l'anima mea. Per la invidia, per la supervia me haco cacciato de mio dominio. Non voco essere puniti. De vostro lenaio so', figlio vastardo de Enrico imperatore lo prode. A voi confugo. Alle ale vostre recurro, sotto alla cui ombra e scudo omo deo essere salvo. Credome essere salvato. Credo che me defennerete. Non me lassarete perire in mano de tiranni, non me lassarete affocare nello laco della iniustizia. E ciò è verisimile, ca imperatore site. Vostra spada deo limare li tiranni. Vedi la profezia de frate Agnilo de Mente de Cielo nelle montagne de Maiella. Disse che l'aquila occiderao li cornacchioni".
[...]

Puoi che deliverao per meglio de volere vivere per qualunche via potéo, cercao e trovao lo muodo e·lla via, muodo vituperoso e de poco animo. Ià li Romani aveano iettato fuoco nella prima porta, lena, uoglio e pece. La porta ardeva. Lo solaro della loia fiariava. La secunna porta ardeva e cadeva lo solaro e·llo lename a piezzo a piezzo. Orribile era lo strillare. Penzao lo tribuno devisato passare per quello fuoco, misticarese colli aitri e campare. Questa fu l'uitima soa opinione. Aitra via non trovava. Dunque se spogliao le insegne della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de recordare. Forficaose la varva e tenzese la faccia de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la porta la quale fiariava, passa le scale e·llo terrore dello solaro che cascava, passa l'uitima porta liberamente. Fuoco non lo toccao. Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: "Suso, suso a gliu tradetore!" Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso allo palazzo. Passava la uitima porta, uno se·lli affece denanti e sì·llo reaffigurao, deoli de mano e disse: "Non ire. Dove vai tu?" Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo. Allora, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de·llà e de cà. Allora Cecco dello Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne·sse iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani.
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statua di Cola di Rienzo sul Campidoglio

Cap. XXVII

Come messer Nicola de Rienzo tornò a Roma e riassunse il potere con molti festeggiamenti, e come il popolo di Roma spietatamente lo uccise.

Correva l'anno del Signore 1354, il primo giorno d'agosto, quando Cola di Rienzo tornò a Roma e fu ricevuto in modo assai solenne. Alla fine, a furor di popolo fu ucciso. La storia andò così. Dopo che Cola di Rienzo decadde dal suo dominio, decise di partire e andare davanti al papa. Prima della sua partenza fece dipingere sul muro di Santa Maria Maddalena, in piazza di Castello, un angelo armato con l'insegne di Roma, il quale teneva in mano una croce. Sulla croce stava una colomba. Quest'angelo teneva i piedi sul serpente e sul basilisco, sul leone e sul drago. Una volta dipinto, i balordi di Roma vi gettarono sopra il fango per sfregio. Una sera Cola di Rienzo venne segretamente senza farsi riconoscere per vedere l'immagine prima della sua partenza. La guardò e si accorse che i balordi l'avevano onorata poco. Allora ordinò che una lampada vi ardesse davanti per un anno. Partì di notte e se ne andò per un lungo tempo. Furono sette anni. Si muoveva molto di nascosto per paura dei potenti di Roma. Andò in giro come un fraticello, dormendo per le montagne della Maiella con eremiti e penitenti. Alla fine si diresse in Boemia, dall'imperatore Carlo, della cui venuta è stato detto, e lo trovò in una città che si chiama Praga. Là, davanti alla maestà imperiale, inginocchiato parlò prontamente. Queste furono le sue parole e il suo autorevole discorso davanti a Carlo re di Boemia, nipote dell'imperatore Enrico, recentemente eletto imperatore dal papa: "Serenissimo principe, al quale è concessa la gloria dell'intero mondo, io sono quel Cola a cui Dio concesse la grazia di poter governare in pace, giustizia e libertà Roma e il suo distretto. Ebbi l'obbedienzia della Toscana, Campagna e Maretima. Raffrenai l'arroganza dei potenti e corressi moite cose inique. Sono un verme, un uomo fragile, una pianta come gli altri. Portavo in mano il bastone di ferro, che per mia umiltà convertii in bastone di legno, per questo Dio mi ha voluto castigare. I potenti mi perseguitano, cercano la mia anima. Per l'invidia, per la superbia mi hanno cacciato dal mio dominio. Non vogliono essere puniti. Io sono del vostro lignaggio, figlio bastardo di Enrico imperatore il prode. Presso voi mi rifugio. Alle vostre ali ricorro, sotto la cui ombra e scudo un uomo dev'essere salvo. Credo di essermi salvato. Credo che mi difenderete. Non mi lascerete perire in mano dei tiranni, non mi lascerete affogare nel lago dell'ingiustizia. E ciò è la verità, perché siete imperatore. La vostra spada deve far giustizia dei tiranni. Vidi la profezia di frate Angelo di Mente del Cielo nelle montagne della Maiella. Disse che l'aquila ucciderà le cornacchie".
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Avendo deciso che era meglio voler vivere in qualunque modo possibile, cercò e trovò la via, in modo vergognoso e codardo. Già i romani avevano dato fuoco alla prima porta gettandovi legna, olio e pece. La porta ardeva. Il soffitto della loggia bruciava. La seconda porta ardeva e ne cadeva il soffitto e il legname pezzo a pezzo. Il gridare era terribile. Il tribuno mascherato penzò di passare per quel fuoco, mescolarsi con gli altri e scamparla. Questa fu la sua ultima decisione. Non trovava altra via. Quindi si spogliò dei simboli della baronia e depose tutte le sue armi. È doloroso ricordarlo. Si tagliò via la barba e si tinse di nero la faccia. Lì vicino c'era una stanzetta dove dormiva il portinaio. Entratovi, prese un mantello di semplice panno, di foggia dei pastori campani. Indossò quel semplice mantello. Poi si mise sul capo una coperta da letto e così combinato scese dabbasso. Supera la porta che avvampava, supera le scale e la paura del soffitto che cadeva, passa liberamente l'ultima porta. Il fuoco non lo toccò. Si mescolò con gli altri. Travestito, alterava il suo modo di parlare. Parlava campano e diceva: "Sù, sù al traditore!". Se avesse superato le ultime scale ce l'avrebbe fatta. L'attenzione della gente era rivolta al palazzo. Stava superando l'ultima porta, quando uno gli si fece davanti e lo riconobbe, lo afferrò e disse: "Fermo. Tu dove vai?" Gli tolse quel berretto dal capo, ed egli si riconosceva soprattutto dallo splendore prodotto dai braccialetti che portava. Erano dorati: non sembravano oggetti da plebeo. Allora, essendo stato scoperto, il tribuno si rivelò apertamente: mostrò chi fosse. Non poteva più darsi alla fuga. Non vi era soluzione se non quella di rimanere alla mercé, al volere altrui. Preso per le braccia, fu condotto liberamente per tutte le scale senza danni fino al luogo del leone 1, dove gli altri attendono la sentenza, dove egli aveva condannato altri. Ivi condotto, si fece silenzio. Nessun uomo ardiva toccarlo. Rimase lì per meno di un ora, la barba tagliata, il volto nero come un fornaio, in giubbetto di seta verde, sceso, coi musacchini 2 dorati, con le calze celestine come un barone. Teneva le braccia conserte. In quel silenzio mosse il viso, guardò di qua e di là. Allora Francesco del Vecchio prese in mano uno stocco e glielo diede nel ventre. Egli fu il primo. Subito dopo di lui fu la volta del notaio Treio e gli diede la spada in testa. Allora l'uno, l'altro e il resto della gente lo percossero. Chi lo percuote, chi lo minaccia. Non disse nulla. Morì al primo colpo, non provò dolore. Venne uno con una fune e gli annodò entrambi i piedi. Lo gettarono in terra e lo trascinavano, lo accoltellavano. Lo trapassavano come fosse un setaccio. Ognuno se ne faceva beffe. Pareva loro di stare alla perdonanza 3. Per questa via fu trascinato fino a San Marcello. Là fu appeso per i piedi a un balconcino. Non aveva la testa. Erano rimasti brandelli di pelle lungo la via per la quale era stato trascinato. Aveva tante ferite che sembrava un setaccio. Non vi era parte del corpo senza ferite. Aveva le masse di fuori, grasse. Era orribilmente grasso [gonfio?], bianco come latte insanguinato. Era tale la sua grossezza che pareva uno smisurato bufalo, ovvero una vacca da macello. Là rimase appeso per due giorni e una notte. I ragazzi gli lanciavano pietre. Il terzo giorno, su ordine di Giugurta e Sciarretta della Colonna, fu trascinato al campo del Mausoleo d'Augusto. Là si radunarono tutti gli Ebrei in gran numero: non si astenne dall'andare neppure uno. Là fu fatto un fuoco di cardi secchi. Fu messo su quel fuoco di cardi. Era grasso. Per il molto grasso ardeva facilmente da sé. Gli Ebrei erano lì molto indaffarati, accaldati. Attizzavano i cardi, perché [il cadavere] ardesse. Così quel corpo venne arso e venne ridotto in polvere: non ne rimase neppure un pezzetto. Questa fu la fine di Cola di Rienzo, che si proclamò augusto tribuno di Roma, che volle essere il campione dei Romani.
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1. - sul fianco sinistro dell'antico Palazzo Senatorio si trovava un'aula dove si svolgevano i processi, presso la quale era un gruppo scultoreo raffigurante un leone che azzanna un cavallo (oggi nei Musei Capitolini): era popolarmente detto "il luogo del leone" e vi si eseguivano le condanne a morte.

2. - accessorio dell'abbigliamento medievale; il Vocabolario degli Accademici della Crusca (Venezia, 1612) ne dà la seguente laconica descrizione: Parte d'armadura di dosso, della qual s'è perduto l'uso.

3. - evento religioso, a cui la gente si recava esternando una certa allegria popolare; Franco Sacchetti, in Trecentonovelle (Firenze, 1385-92) scrive: Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a diletto, piú che a perdonanza.  (tratto dalla Novella LXXV).


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G.G.Belli
BERNERI
Meo Patacca, da G.Berneri
BELLI
C.Pascarella
PASCARELLA
Trilussa
TRILUSSA
G.Zanazzo
ZANAZZO
A.Fabrizi
FABRIZI