~ la lingua e la poesia ~
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Giuseppe Berneri
(1637 - 1700 c.ca)


salta l'introduzione


Meo Patacca overo Roma in feste ne i Trionfi di Vienna (1695) è un poema eroicomico che celebra il popolo di Roma, offrendo un fedele spaccato della vita quotidiana della città alla fine del XVII secolo. Eppure, mentre il protagonista, dal quale l'opera trae il titolo, è un personaggio ancora vivo tra le tradizioni locali, alla gran parte dei romani il nome del suo autore rimane pressoché sconosciuto.

Giuseppe Berneri, nato a Roma, fu sia poeta che commediografo e membro di diverse accademie letterarie del suo tempo, di cui si ricorda soprattutto l'Accademia degli Infecondi, citata nel frontespizio dell'opera (qui in basso).
Tra i suoi lavori figurano poemi, rappresentazioni teatrali allegoriche e religiose, ma fra i suoi titoli viene ricordato solo il Meo Patacca.
Dell'autore non è rimasto neppure un ritratto. Ma il grande apprezzamento per l'eroe popolare, il rugantino Meo (cioè Bartolomeo), che è un popolano a sua volta, pur rappresentando un virtuoso esempio di coraggio e moralità, dà ragione di una così duratura fama.
Ciononostante, negli ultimi decenni sono state date alle stampe pochissime edizioni del poema. Al giorno d'oggi il capolavoro di Berneri è relegato tra i titoli semisconosciuti della letteratura minore, occasionalmente reperito sulle bancarelle dei libri di seconda mano.
Sono pochi i siti web che citano i versi di questo poema; tra di essi Roma Virtuale è l'unico ad offrire oltre un terzo delle originali 1245 ottave, con il riassunto della trama.

Prendendo a pretesto un fatto storico, Meo Patacca narra le vicende di un giovane sgherro, cioè un popolano abile nel maneggiare le armi, con un alto senso dell'onore, che offriva i suoi servigi alla propria comunità compiendo delle buone azioni e combattendo i soprusi. Il carattere delle situazioni che via via si dipanano è spesso comico. In questo Berneri aveva certamente attinto al celebre poema La secchia rapita (1622) del modenese Alessandro Tassoni. Inoltre, appena sette anni prima (1688), un altro autore romano, Giovanni Camillo Peresio, aveva pubblicato Il maggio romanesco, poema eroicomico pressoché gemello al Meo Patacca nella lingua e nella struttura, seppure ambientato nel Trecento.

Nell'apprendere la notizia che Vienna è stata assediata, Meo raduna i migliori sgherri di Roma e forma una piccola armata per dare aiuto alla città cristiana. Ma poco prima di mettersi in marcia, giunge a Roma la notizia che le stesse truppe di Vienna sono riuscite a liberare la città dai Turchi, e così il denaro raccolto per la spedizione viene impiegato per organizzare una grande festa cittadina, che dura diversi giorni.
Sullo sfondo, la storia d'amore di Meo con la sua spasimante Nuccia fa da contrappunto ai principali eventi della trama.
Tutti i personaggi sono modellati sui tipici popolani romani; alcune delle situazioni sono davvero divertenti, e disseminate da pungenti osservazioni dello stesso Berneri, che si riserva la parte del narratore, spesso aggiungendo i propri pensieri, e di tanto in tanto indugiando nella descrizione dei luoghi famosi di Roma che costituiscono l'affascinante ambientazione della storia.
Inoltre, il poema è una vera miniera di informazioni sulla vita di tutti i giorni nella Roma del tardo XVII secolo: come vestiva la gente del popolo, come era ammobiliata una casa comune, quali erano le formule di saluto, ed altre ancora.

Ma il poema testimonia anche l'atmosfera di fanatismo della Roma sotto il secolare dominio dei papi: la missione dell'eroe può essere letta come una mini-crociata, basata sulla prospettiva religiosa di un esercito di infedeli all'attacco di una città cristiana. Nell'ultimo Canto questo sentimento sfocia in autentica intolleranza: scatenata da un futile pretesto, la marmaglia assedia il ghetto della comunità ebraica, accusata di aver simpatizzato per i Turchi. Questo, come pure altri eccessi, vengono stigmatizzati dallo stesso Berneri.
Al contempo, il Meo Patacca si rivela una fonte insostituibile di documentazione storica su come si svolgevano le feste pubbliche a Roma: quasi l'intera seconda metà dell'opera descrive minuziosamente come si organizzavano i festeggiamenti, com'erano costruiti i diversi tipi di fuochi d'artificio, come venivano sparati e qual era il loro risultato, ed anche in che misura il popolino creasse tumulto nel prendere parte alle feste (un'occasione per i ceti più bassi di sfogarsi della propria miserabile condizione). Durante queste celebrazioni non era raro che qualche passante rimanesse ferito, o persino ucciso.

L'assedio di Vienna che ispirò il poema è un fatto realmente accaduto. Il 14 luglio 1683, il visir ottomano Kara Mustafa Pasha (il cui nome si ritrova nel testo come Bassà, corrotto secondo il dialetto) mise Vienna sotto assedio, per 60 giorni. La città sarebbe caduta nelle mani dei Turchi, se papa Innocenzo XI non avesse invocato l'aiuto del re di Polonia Giovanni III Sobieski, il cui intervento si rivelò decisivo. Mentre gli Ottomani si ritiravano, l'armata austriaca entrò in Ungheria e prese Buda.

L'opera di Berneri venne pubblicata la prima volta dodici anni dopo, nel 1695. Per una seconda edizione si dovettero attendere circa 100 anni, ma questa era decorata con 52 tavole disegnate dal famoso incisore romano Bartolomeo Pinelli (quelle mostrate in questa pagina fanno parte della suddetta serie).

LA LINGUA
Questo è un altro aspetto interessante del Meo Patacca. Berneri fuse l'arcaico italiano parlato nel Secento col dialetto di Roma, che a quei tempi aveva già sviluppato un proprio carattere; il risultato è forse un linguaggio più diluito di quello parlato nelle strade, ma ciò è comprensibile se consideriamo che Meo Patacca è una delle prime opere interamente scritte in una lingua non ufficiale, o non letteraria, non perché l'autore non avesse padronanza dell'italiano, ma piuttosto come coraggioso tentativo di abbassare il livello del linguaggio, affinché anche la gente comune potesse comprenderla.

Nella prefazione l'Autore si rivolge ai lettori a proposito del linguaggio, ciò che potremmo considerare uno dei primi esempi di grammatica di dialetto:

« Non ti sia discaro [Non ti dispiaccia], Gentilissimo Lettore, che Io t'avvertisca in primo luogo, che il Linguaggio Romanesco, non è (come suppongono Alcuni) notabilmente diverso da quello che s'usa dalla Gente volgare di Roma, eccettuatene alcune parole, et Idiotismi, che inventarono i Romaneschi à loro Capriccio, e bene spesso con Etimologìe non affatto improprie, quali riescono assai piacevoli. Ma in realtà consiste principalmente il detto Linguaggio in alcune repliche d'una istessa parola in un Periodo, che danno forza al Discorso, come per cagion d'essempio. La vuoi finì la vuoi? Ne fai fà più ne fai? e simili; Consiste ancora in alcune parole tronche, cioè Verbi nell'Infinito, dicendosi sedè, camminà, parlà, in vece di sedere, camminare, parlare, et alle volte in qualche Articolo, E.G. in vece di dire nel viaggio, dicono in tel Viaggio, spesso anche nelle parole accorciate, dicendo sta tu bravura in cambio di questa tua bravura; Procuri pertanto Chi Legge, quando da Altri è inteso, d'imitar più che può la Pronunzia di detti Romaneschi (...)
Se poi nel leggere troverai, Barbarismi, e Sconcordanze, non attribuir ciò all'inavvertenza dell'Autore, mà solo alla proprietà d'un tal Linguaggio, che richiede alle volte tali Scorrezioni; (...) »

In Berneri, tanto in dialetto che in italiano, una H di origine latina precede ogni voce verbale di "avere": havé (per "avere"), haveva, havrà, havrìa (per "avrebbe"), havuto, ecc. Lo stesso arcaismo si trova in alcuni sostantivi quali homo, hora, horto, e così via.
Al contrario, diversi vocaboli che in italiano contengono una H nel testo di Berneri la perdono: occi (per occhi), ciamare (per chiamare), e così via. In seguito quest'ultimo fenomeno scomparve dal dialetto romano.
È interessante come qualche parola derivi chiaramente dallo spagnolo: essendo il meridione rimasto a lungo sotto il dominio della corona di Spagna, tali influenze filtrarono attraverso il dialetto napoletano, parzialmente attecchendo anche a Roma.
Una di queste tracce spagnole, probabilmente, è l'uso dell'articolo determinativo el (che la Spagna aveva a sua volta ereditato dagli Arabi durante il medioevo); a Roma la pronuncia di quest'articolo divenne più ruvida, er, anche se i pochi che affettavano un linguaggio meno volgare, nel tentativo di apparire più educati, continuarono a dire el. E nel corso del XX secolo, "ammorbiditosi" un po' il dialetto, soprattutto nei testi scritti finì col prevalere la grafia originale.
Un altro esempio è l'uso del verbo buscare (In busca de' compagni ohmai si vada, Canto I, 82): col tempo, il significato del verbo, che in questo caso vuol dire "cercare" (come pure in spagnolo), a Roma si trasformò in quello di "ottenere, ricevere", cioè non l'azione originale, ma il risultato della ricerca.
Invece un segnale del tramite partenopeo di queste voci spagnole è l'uso di fornire per "finire", nisciuno per "nessuno", ecc., tuttora presenti nel dialetto napoletano, ma non più in quello romano.

Molto frequente nel linguaggio di Berneri, come egli stesso nota, la ripetizione della prima parte della frase, usata per dare più enfasi al discorso (alcuni esempi: Famo una cosa per adesso famo oppure Ce semo intesi, - disse Meo, - ce semo o anche Fatto l'havrìa pentì fatto l'havrìa, ecc.), effettivamente ancora presente nel dialetto romano dei primi del '900, in particolare in quello di Giggi Zanazzo, così come pure la frequente aggiunta di una sillaba, -ne, all'infinito dei verbi romaneschi (cosidetta epitesi), per cui cascà → cascàne, vedé → vedéne, rosicà → rosicàne, e così via, oggi rimasta solo in pochissimi vocaboli (sì → sìne, no → nòne, ecc.).

L'uso della punteggiatura da parte di Berneri è abbastanza capriccioso, allo scopo di riprodurre le pause tipiche della parlata romana (come si legge nelle note introduttive) e di tanto in tanto anche la grafia di alcuni vocaboli fluttua da una forma ad un'altra, come nel caso di chalche → calche ("qualche"), propio → proprio, ajuto → aiuto, ecc.
Anche molte preposizioni vengono usate in forme diverse, spesso a seconda di chi pronuncia la battuta (ad esempio, un popolano, o il narratore, ecc.): per → pe', di → de, con → co', e così via.
Si trovano anche alcuni vocaboli tipici del giudaico-romanesco, soprattutto nell'ultimo Canto, la cui prima metà è ambientata nel ghetto ebraico (cfr. anche l'appendice).

Dei molti termini dialettali alcuni sono oggi di non facile comprensione, quali iofamente per "splendidamente", a fé per "affatto, davvero", nostrisci oppure nostròdine, cioè "la nostra (mia) persona", un enfatico modo per dire "io, il sottoscritto", che a volte ha come equivalente 'sto fusto (raramente usato nel dialetto moderno), e via dicendo.
In un lasso di tempo di oltre 300 anni tali vocaboli sono diventati del tutto obsoleti, ma per il lettore romano medio la comprensione di questo testo risulta ancora abbastanza chiara.

Essendo uno dei primi tentativi di scrivere un'opera interamente in dialetto, Berneri aggiunse molte note esplicative; a differenza de Il maggio romanesco di Peresio, in cui un glossario di riferimento è presente al termine del poema, nel Meo Patacca furono impresse a lato di ciascuna ottava, per agevolare la comprensione da parte del lettore.

Nell'antologia presentata in queste pagine si è scelto di seguire in parte la grafia dell'edizione del 1966 curata da Bartolomeo Rossetti. Rispetto all'originale, sono abolite le iniziali maiuscole di molti sostantivi. I dialoghi diretti sono segnalati per mezzo delle virgolette basse « », mentre le loro interruzioni sono racchiuse tra lineette, anziché tra parentesi. Si sono mantenuti in larga parte la grafia, gli accenti e segni di interpunzione, di cui nell'edizione originale si fa uso sovrabbondante e non sempre omogeneo, intervenendo solo su quelli che potrebbero creare dubbi al lettore; in particolare, per i monosillabi tronchi, quali fa' ("fare"), pe' ("per"), su' ("suo"), 'sto e 'sta ("questo", "questa"), ecc. si è preferito l'apostrofo, mentre nell'edizione tardo-seicentesca si trovano sempre e soltanto vocali accentate: , , , stò, stà, ecc. (tranne quelle maiuscole, ad esempio E' in luogo di È, semplicemente perché i caratteri accentati maiuscoli non erano nella disponibilità del tipografo). Quindi:
a' = al, ai (preposizione composta) à = a (preposizione semplice)
da' = dare (2ª p. sing. dell'imperativo di "dare")
= dal, dai (preposizione composta)
= da (3ª p. sing. del presente indicativo di "dare")
fa' = fare (2ª p. sing. dell'imperativo di "fare") = fa (3ª p. sing. del presente indicativo di "fare"
su' = suo, sua, suoi, sue = su (preposizione)
va' = va' (2ª p. sing. dell'imperativo di "andare") = va (2ª p. sing. del presente indicativo di "andare")
'sta = questo, questa stà = sta (3ª p. sing. del presente indicativo di "stare")
'sto = questo, questa stò = sto (1ª p. sing. del presente indicativo di "stare")
Ecco un'ottava (II, 75) a confronto nelle due versioni; le differenze sono mostrate in rosso.

edizione originale del 1695

Quietati (Dice) Nuccia, perche hai Torto,
A' fà con Mè tante frollosarìe,
Vuoi sol della Partenza il Disconforto,
E gnente penzi alle Vittorie mie,
E non sai, ch‘alla Guerra Io farò 'l Morto,
E buscherò delle Galantarie?
Sappi, che i Turchi, (à Mè già par d'haverle)
A' iosa ne i Turbanti hanno le Perle.
in questa antologia

« Quietati, - dice, - Nuccia, perché hai torto,
À fa' con mè tante frollosarìe.
Vuoi sol della partenza il disconforto,
E gnente penzi alle vittorie mie,
E non sai, ch'alla guerra io farò 'l morto,
E buscherò delle galantarie?
Sappi, che i Turchi, (à mè già par d'haverle),
À iosa ne i turbanti hanno le perle ».

LA STRUTTURA
Il Meo Patacca si compone di ottave in endecasillabi, un tipo di strofa che era stata usata fin dal Trecento dai maggiori poeti italiani, tra cui Giovanni Boccaccio, Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Per le ottave si conoscono differenti schemi di rime; quello più comunemente usato (compresa l'opera di Berneri), detto ottava toscana, è: A B A B A B C C.
Il poema è diviso in dodici Canti, ciascuno dei quali si apre con un'ottava supplementare (Argomento), una specie di breve sommario dei fatti narrati. Qui in alto è mostrato l'inizio del I Canto, dall'edizione originale del 1695.



Meo Patacca

CANTO I CANTO II CANTO III CANTO IV CANTO V CANTO VI
CANTO VII CANTO VIII CANTO XIX CANTO X CANTO XI CANTO XII

APPENDICE - i luoghi di Meo Patacca






BELLI

PASCARELLA

ZANAZZO

TRILUSSA

FABRIZI