~ la lingua e la poesia ~
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introduzione al
DIALETTO ROMANESCO

ESPRESSIONI IDIOMATICHE
E MODI DI DIRE




arimané (restà) com'e ddon Farcuccio

L'espressione per esteso è arimané (o restà) com'e ddon Farcuccio: co 'na mano davanti e n'antra de dietro, e fa riferimento ad un ipotetico prete di nome Falcuccio il quale, privato degli abiti, rimase per l'appunto ignudo, e dunque costretto a coprirsi le pudenda "con una mano davanti e un'altra dietro".
In genere, dell'espressione si usa solo la prima metà, essendo il seguito fin troppo noto.
Vuole indicare un frangente, una situazione, uno stato delle cose in cui il soggetto a cui è riferita (cioè chi viene paragonato a don Falcuccio) si ritrova preso tra due fuochi, o subisce danno in tutti i casi, sia che le cose vadano in un certo modo che nel modo opposto, ecc.
Ad esempio, chi acquista un'automobile a rate che però viene rubata prima di essere stata pagata del tutto, o chi viene scoperto dalla propria moglie mentre si ha una tresca con la sua migliore amica ed entrambe decidono di lasciarlo, rimane proprio com'e ddon Farcuccio.



fa' come faceveno l'antichi

Anche questa è un'espressione di cui solitamente si usa solo la prima metà, essendo per esteso:
fa' come faceveno l'antichi, che magnaveno la còccia e bbuttaveno li fichi.
Stando a questo detto scherzoso, cioè, gli antichi erano soliti mangiare la buccia (o còccia, in romanesco), gettando via la parte più pregiata del frutto.
Viene sempre riferita a chi fa le cose in modo strampalato o apparentemente controproducente: se ad esempio si investe del denaro in borsa su azioni che continuano a perdere valore, si fa come faceveno l'antichi.
In una variante più greve di questa espressione, la seconda parte è: che maggnaveno la còccia e cacaveno li fichi.



li guadàmmi de Maria Cazzetta

Espressione assai simile alla precedente. Premesso che Maria Cazzetta è un personaggio ipotetico, il cui nome dispregiativo viene accostato a un generico guadagno (guadàmmio) per bollare un affare solo in apparenza vantaggioso, ma che all'atto pratico non lo è affatto. Ad esempio, se per risparmiare acquistiamo un'automobile usata, ma poi con le riparazioni di cui necessita ci viene a costare quanto un'auto nuova (se non persino di più).
In genere si usa commentare con la forma esclamativa: che bbèr guadàmmio (oppure al plurale che bbelli gguadàmmi) de Mmaria Cazzetta!.



avécce le madonne

Corrisponde all'italiano "avere le paturnie", ovvero essere nervosi a causa di qualcosa di negativo già occorso, e che rende molto suscettibili e scontrosi.
Esempi tipici sono frasi del tipo: oggi lassàteme perde, che ciò certe madonne... (cioè "oggi lasciatemi stare, che ho certe paturnie..."), oppure ahò, che ciài le madonne? ("ehi, sei forse adombrato?").



avécce le saccòcce fatt'a llumàca

Avere "le tasche fatte a lumaca" è una mirabile perifrasi rivolta a chi ha fama di essere poco incline a spendere, ed è anche usata per bollare gli scrocconi.
Quindi, chi si dimostra sempre parsimonioso, chi bada al centesimo, chi al momento di offrire da bere non ha mai con sé il portafogli, ...cià le saccocce fatt'a llumaca.



tre ppiggne e 'na tenaja

Anche questa espressione, "tre pigne e una tenaglia", equivale ad "essere tirchi". A spiegare il senso della metafora è nientemeno che G.G.Belli, in una delle sue note:
Si suol dire agli avari, imperocché la pigna cede a stento il suo frutto, e la tenaglia ritiene fortemente ciò che ha già preso.
Quindi, attenti a non mostrarvi troppo poco inclini a pagare, ad offrire cibi o bevande, ecc.: correreste il rischio di essere bollati col marchio d'infamia tre ppiggne e 'na tenaja!



annà all'arberi pizzuti
annà a ffa' terra pe cceci
stirà le cianche
annàssene all'antri carzoni
tirà er cazzo ar pettirosso

Se il romanesco si preoccupa di non menzionare la malattia, figuriamoci quando è l'ora di fare i conti con la commare secca (ovvero la morte): le perifrasi sono ancora più numerose e variopinte.
Fra quelle usate ancora oggi c'è "l'andare agli alberi pizzuti" cioè "ai cipressi" (albero notoriamente ...cimiteriale, almeno nella nostra cultura). Ma anche "l'andare a far terra per i ceci", un legume peraltro tipico della cucina locale, testimonia come persino di fronte agli eventi più ineluttabili il vero romano non rinuncia mai ad assumere una posizione distaccata e beffarda. E l'espressione "stirà (cioè distendere) le cianche (gambe)" ne è un ulteriore esempio.
Il quarto modo di dire, divenuto abbastanza infrequente, si trova nei testi di Giggi Zanazzo, e probabilmente si riferisce all'uso di vestire la salma col "vestito bbòno", quindi anche con un paio di calzoni che in vita non indossava spesso.
Resta invece dubbia l'interpretazione del quinto (e purtroppo estinto) modo di dire, assai colorito, che si ritrova nei sonetti di G.G.Belli.



arègge (tené, tirà) er fiato co li denti
stà ppiù de llà che dde qua

Causa la superstizione del volgo, il romanesco è pieno di frasi idiomatiche che fanno riferimento alla condizione del trovarsi in un pessimo stato di salute, essere prossimi alla dipartita, e così via, senza dover però menzionare esplicitamente la malattia: secondo il popolo, infatti, anche la sola parola sarebbe foriera di cattivo augurio, richiedendo per questo un estemporaneo esorcismo: l'espressione sarv'oggnuno (più o meno equivalente a "Dio ci scampi"), per la verità oggi non più molto usata.
Le espressioni di cui sopra, invece, aggirano l'ostacolo, anche con una certa efficacia: "reggere (o tenere, o tirare) il fiato coi denti" non richiede certo spiegazioni: evoca l'immagine del malato che, come in una barocca danse macabre, a stento trattiene la propria anima dal volarsene via.
Anche lo "stare più di là che di qua" è abbastanza chiara, considerato che la stessa lingua italiana ricorre ad espressioni quali "aldilà" e "l'altro mondo" per indicare l'ultraterreno.



brega

"Brega" è un personaggio dell'immaginario romanesco, citato sempre come persona inesistente, come a dire "il signor Nessuno", quando qualcuno omette di fare fede ad un impegno preso, o di restituire qualcosa di dovuto, ecc.
Un esempio fugherà ogni dubbio circa l'uso dell'espressione. Prendete un taxi e, una volta giunti a destinazione, avvisate l'autista che avete dimenticato il portafogli a casa: la sua legittima reazione potrebbe essere: e mmò cchi mme paga, Brega? (cioè "e ora chi mi paga, il signor Nessuno?").



èsse Cacìni

Gustavo Cacini (1890-1969) era un attore di avanspettacolo che conobbe una certa popolarità alla fine degli anni '20, interpretando macchiette di sbruffone e di spaccone. Per cui a chi millanti o effettivamente porti a termine qualcosa di grandioso, un'impresa che parrebbe impossibile, si usa dire: "E cchi ssei, Cacini?", oppure "Ahò, è arivato Cacini!", e così via, come dire "È arrivato Superman". È un commento che non mette in dubbio l'azione compiuta o da compiersi, ma ironizza sul suo esecutore, a volte celando anche una punta d'invidia.
Può essere anche riferito ad una terza persona ("E cchi ssarà mmai? Cacini?"), ma non è mai usato al plurale.



come stamio arimanessimo

Equivale in italiano a "così come stavamo, siamo rimasti" (nel senso di "siamo ancora al punto di partenza"), ed è usata come frase idiomatica. Si noti che la voce verbale rimanessimo traduce il passato remoto italiano rimanemmo (cfr. la grammatica).
Provate a domandare all'impiegato del ministero a che punto è la vostra pratica urgente, e la risposta potrebbe essere eh... come stamio arimanessimo!, nel senso di "nulla è cambiato dall'ultima volta".



da' un cristo

Il cristo in questione è, come si direbbe in italiano, un forte colpo, una bòtta.
"Dare un cristo" equivale piuttosto a "colpire una superficie dura", per esempio: quann'è ccascato ha ddato un cristo sur pavimento ("quando è caduto ha dato un colpo sul pavimento"), oppure ho 'ntruppato er muro e ho ddato un cristo co la capoccia ("ho urtato il muro e ho dato un colpo con la testa").
In sostanza, quindi, il cristo si dà, ma le sue conseguenze... si ricevono.
Un'ulteriore modo di dire basato sulla medesima espressione è manco si tte dai un cristo in petto, cioè "nemmeno se ti percuoti il petto" (arcaico segno di pentimento), il cui significato è "assolutamente no, no in tutti i casi". Chiedete a qualcuno di prestarvi la sua costosa automobile nuova, ed egli vi risponderà: te lo pòi scordà, manco si tte dai un cristo in petto ("te lo puoi togliere dalla mente, è no e basta").



di' ccótica

In romanesco la cótica è la pelle dura degli animali commestibili, ad esempio del maiale, resa famosa da piatti tipici, fra i quali i celeberrimi faciòli co' le cotiche.
L'espressione "dire cotica" è sempre usata in forma enfatica, e sta a significare letteralmente "dire a qualcuno alcunché di male".
La forma di gran lunga più usata è quella interrogativa: a chi ci risponde senza apparente motivo in modo brusco, scortese o sgarbato, replicheremo ahò, ma che tt'ho ddetto cótica? (ovvero "ehi, ti ho forse detto qualcosa di male?").
Allo stesso modo, è anche usata in forma e cche magnera d'arisponne, mica j'ho detto cótica! (cioè "che maniera di rispondere, non gli ho mica detto qualcosa di male!").



pijàlla d'aceto
annà in puzza

La prima espressione, "prenderla d'aceto", ha il significato di reagire con esagerazione, offendersi o prendersi collera per qualcosa che è stata appena detta (uno scherzo, una critica, un commento salace, od altro): che esaggerato, l'ha pijata d'aceto. La metafora si riferisce a qualcuno il cui atteggiamento amichevole si fa aspro, così come il sapore di un buon vino che si sia tramutato in aceto. La parola "aceto" va sempre pronunciata "asceto", con un suono molto morbido.

La seconda espressione (di cui alternative sono annàcce in puzza e annà de puzza) appartiene al dialetto contemporaneo, e significa letteralmente "cominciare ad avere cattivo odore", più o meno come una derrata deperibile fa quando diventa guasta. La metafora è assai simile, sebbene questa sia usata quando qualcuno diviene palesemente alterato o irritato nel perdere la faccia davanti ad altri (ad esempio nell'essere deriso o sbeffeggiato, oppure nel perdere una sfida, e così via) invece di mantenere il controllo di sé stesso: quanno s'è arzato rideveno tutti, e lui c'è annato (c'è ito) un po' in puzza.



parè un sallàzzero

È noto che il supplizio di San Lazzaro consistette nel fare dello sventurato martire un autentico bersaglio umano, in quanto i suoi aguzzini ebbero la massima cura nel colpirlo con le frecce solo nelle parti non vitali del corpo. L'iconografia classica ci consegna quindi l'immagine di un uomo grondante sangue dalle molteplici ferite.
In questa prospettiva, forse un po' grandguignolesca, "sembrare un San Lazzaro" equivale ad "essere davvero molto malconcio", per le conseguenze di lesioni fisiche subìte, ma - per traslato - anche in senso metaforico: un tipico commento delle mamme romane ai propri figli che si sono sporcati giocando potrebbe essere va' ccome te sei combinato, me pari un sallàzzero! (cioè "guarda come ti sei conciato, mi sembri un San Lazzaro!").



acciaccà l'ova

"Schiacciare le uova" si dice scherzosamente di una persona che deambula molto lentamente, con calma serafica, come se stesse camminando con cautela su un tappeto di uova.
È usata in senso negativo, per cui di solito viene riferita a qualcun'altro, non a sé stessi.



èsse pace

È un'espressione sempre usata nell'unica forma sémo pace, che fra due parti in causa equivale a dire "siamo pari, nessuno dei due deve più niente all'altro".
Ad esempio, nel saldare un debito: ècchete ducentomila lire e ssémo pace, che equivale a "eccoti duecentomila lire, e siamo pari" (cioè "il mio debito è estinto").



èsse de coccio

È un comunissimo modo di dire, che in italiano potrebbe essere reso come "essere duro di comprendonio" oppure "essere ostinato in maniera eccessiva".
Per esempio, alla classica masnada di bambini che nei loro giochi urlano e strepitano proprio sotto le finestre di casa, dopo qualche cortese invito ad abbassare un po'... il volume, ci si rivolgerà con:
a regazzì, allora séte de coccio! cioè "proprio non lo volete capire (di fare meno rumore)".
Per meglio espletarne il senso, l'espressione andrebbe accompagnata dal gesto di bussare col pugno chiuso su una superficie dura (il tavolo, il muro, ecc.), così da provocare un suono sordo, come appunto si otterrebbe picchiando su un vaso od altri oggetti di coccio.



annà (fa', pijà, ecc.) a l'inzecca

Inzecca, dal verbo inzeccà (o inzeccàcce), equivale all'italiano "azzeccamento", quindi l'intera espressione suona come "andare (fare, prendere, ecc.) a caso, a campione".
Ad esempio: me sò ggiucato a' llotto tre nummeri a l'inzecca e cciò pijjato n'ambo (ovvero: "ho giocato al lotto tre numeri a caso e con essi ho realizzato un ambo".



morìsse de pizzichi

Espressione idiomatica che corrisponde all'italiano "annoiarsi mortalmente", sempre usata in forma riflessiva. È valida per bollare qualunque attività, luogo, circostanza, ecc. che non offra stimoli, che non sia di proprio interesse, e che susciti il proprio disappunto.
Che a Ppasquetta séte annati fòra? No, ssémo rimasti a ccasa a mmorisse de pizzichi, oppure ...e sse sémo morti de pizzichi (cioè "Siete usciti per Pasquetta? No, siamo rimasti a casa a morire di noia", oppure "...e ci siamo annoiati mortalmente").



fa' mmarco sfila

Equivale a "svignarsela, battersela, ritirarsi, ecc.", potendo racchiudere di volta in volta sfumature diverse, che i seguenti due esempi mettono in risalto:
li ladri sò entrati, se sò ffregati tutto, e hanno fatto marco sfila (cioè "i ladri sono entrati, hanno rubato tutto, e se la sono svignata");
quanno vedete le bbrutte, è mejo a ffa' mmarco sfila che a risicà (ovvero "quando vedete le brutte, è meglio battere in ritirata che rischiare").



èsse anticajj'e ppetrella
èsse de li tempi de Checch'e Nnina

Entrambe le espressioni vengono riferite ad oggetti, utensili, ecc. "vecchi ed obsoleti", e come tali inadatti all'uso che se ne dovrebbe poter fare. La sfumatura che se ne ricava, comunque, è sempre negativa, ma non troppo cattiva. La prima delle due espressioni può persino essere usata come sostantivo.
Ad esempio, se un amico ha ancora in casa un televisore in bianco e nero, il nostro divertito commento potrebbe essere: Anvedi! Andò l'hai rimediata st'anticajj'e ppetrella? Quest'è dde li tempi de Checch'e Nnina. (cioè "Ma guarda! Dove hai scovato un tale reperto preistorico? Questo è un pezzo da museo").
In quanto all'origine, la prima espressione deriva dalle "pietrelle", cioè piccole pietre o manufatti in pietra, provenienti in larga parte da siti archeologici o collezioni antiche, che costituivano una minuzzaglia rispetto ai pezzi di maggior valore, e quindi finiva sui banchi dei rigattieri. La seconda ha una radice più fiabesca, come dire "al tempo in cui Berta filava", chiamando in causa due fantomatici personaggi di nome Francesco (Checco) e Giovanna (Nina).



tàja ch'è rosso!

Era il vecchio grido dei cocommerari romani, cioè dei venditori ambulanti di angurie, figura tutt'ora esistente, che invitavano i passanti a "tagliare [il cocomero] perché rosso", cioè maturo.
Per traslato, l'espressione ha assunto il significato generico di approfittare di una ghiotta occasione, gettandovisi a capofitto (come dire: piatto ricco, mi ci ficco!).



'gni bbotta 'na tacchia

Sviluppando per esteso questa espressione, ogni botta una tacchia (cioè "ogni colpo un segno, una tacca"), si intuisce che il significato è quello di "fare centro, colpire il bersaglio ad ogni tentativo". Questo può essere usato in senso letterale, ma assai più spesso in senso metaforico. Ad esempio, l'accanito donnaiuolo potrà vantarsi con gli amici delle sue numerose avventure galanti commentandole orgogliosamente: 'gni bbotta 'na tacchia.



chi tocca 'n ze 'ngrugna

L'espressione, per esteso, in italiano suonerebbe suppergiù "a chi capita [la sfortuna], non se ne abbia a male", ed è la versione romana dell'hodie mihi, cras tibi dei Latini. Viene usata a commento di eventi spiacevoli, i più disparati (una perdita al gioco, un accertamento fiscale, la visita della suocera), in senso un po' ironico, oppure per tacitare le proteste del malcapitato. A volte è usato dalla stessa persona che subisce la malasorte, a riprova del carattere fatalista, e tutto sommato "sportivo", del romano autentico.



nun c'è ttrippa pe' ggatti

Questa espressione si commenta da sé: equivale a "non vi è alcuna speranza che una certa cosa venga concessa". Si usa soprattutto per negare qualcosa a qualcuno in modo molto chiaro e risoluto: il negoziante a cui per l'ennesima volta il cliente chiede di fare credito risponderebbe: nòne, qui nun c'è trippa pe' ggatti (cioè "no, te lo puoi scordare"). È simile a manco si tte dai un cristo in petto, di cui si è detto sopra; tuttavia in questo caso l'espressione ha una sfumatura di significato leggermente diversa: "no, perché cerchi di approfittare della situazione", come un gatto che staziona presso il negozio di macelleria in attesa che gli vengano gettate le rigaglie.
L'espressione nacque ai primi del '900, allorché il famoso sindaco di Roma Ernesto Nathan cancellò dal bilancio del Comune l'acquisto di trippa destinata a sfamare i felini, utilizzati come ...deterrente per i topi che infestavano il Campidoglio. Ma a fronte dell'insuccesso di tale strategia (e dell'aumento del costo della trippa!) sul libro del Bilancio Comunale venne scritto: Non c'è trippa per gatti.
(si ringrazia Elisabetta Anastasio per le fonti storiche)


nun sapé a cchi ddà li resti

Il significato di questa espressione è "non essere più in grado di gestire la situazione", profferito da chi è oberato da un numero eccessivo di richieste, di clienti, di impegni, ecc., a cui teme di non riuscire a fare fronte.
Sembra che l'origine derivi dall'uso che una volta era proprio dei garzoni di macelleria, di trasportare gli scarti della bottega ad una qualche discarica (magari il più vicino monnezzaro); durante il percorso, gli strati meno abbienti della popolazione seguivano e circondavano il carretto pieno di ossa, rigaglie e quant'altro, mendicando quegli stessi scarti. La frase in oggetto, cioè "non sapere a chi dare i resti", viene attribuita all'ignaro garzone, il quale vuoi per la disperazione di vedersi continuamente attorniato dalla folla di pezzenti, vuoi per la sgradita responsabilità di dover scegliere a chi, fra molti, elargire quel "ben di Dio", si sarebbe espresso in questi termini. Oggi, per fortuna, il suo uso è limitato alla metafora.
(si ringrazia Elisabetta Anastasio per le fonti storiche)


èsse come la sora Camilla

Il modo di dire per esteso è: èsse come la sora Camilla, che tutti la vònno e gnisuno se la pijja (cioè "essere come la signora Camilla, che tutti vogliono ma che nessuno si prende").
Anche questo motto si basa su un fatto storico: donna Camilla, sorella di Felice Peretti cioè Sisto V ("er papa tosto"), ebbe diversi pretendenti alla mano ...ma poi finì con l'entrare in convento. Di qui l'espressione, che ironizza sulla vicenda, e che per traslato viene usata anche in altri contesti: per esempio, a chi riceve diverse proposte di lavoro ma non viene mai assunto, si potrà ben dire che è come la sora Camilla.
Sul piano linguistico, si badi bene a pronunciare molto stretta a "o" di sora (cioè "signora"), per non confonderla con sòra ("suora", vocabolo peraltro alieno al romanesco, che chiama la religiosa sempre e solo monica). Nel dialetto moderno vi è la tendenza a dire piglia (anziché pijja), anche per creare maggiore assonanza col nome della zitellona.



(arimané) pe' sseme de patata

"Rimanere come seme di patata" ha una certa analogia con l'espressione precedente: vuol dire "restare solo, spaiato, privo di compagno". Infatti questa espressione viene riferita più spesso alle zitellone: 'sta mi fija m'è arimasta pe' sseme de patata, cioè "questa mia figlia non si è ancora maritata" (sottintendendo il desiderio disatteso o il tentativo fallito di prendere marito). Ma si può anche usare in senso più generale: se ne so' iti tutti e m'hanno lassato lì ppe' sseme de patata, cioè "se ne sono andati tutti e mi hanno lasciato lì da solo".
Ne è nota la variante pe' sseme de cavolo, usata da G.G.Belli.



ariconzolàsse co l'ajetto

Equivale a "consolarsi di un evento negativo con un ben misero tornaconto", ma sottende una vena d'ironia da parte di chi pronuncia l'espressione. Viene spesso usata da chi subisce il fato, al plurale (ariconzolamose o ariconzolamese), come a dire "accettiamo giocoforza il contentino".
Se ci rubano il portafogli ma almeno i documenti vengono ritrovati, o se il televisore si rompe un'ora prima della partita e un amico ci presta la radio, ...ariconzolamose co l'ajetto!.



requi'e schiatt'in pace ammènne

È una furbesca corruzione dell'ultimo verso della preghiera in latino per i defunti, requiescant in pace, amen, che contiene la voce del verbo schiattare ("crepare, morire"). Si può usare come laconico commento (pur venato dall'onnipresente ironia romanesca) alla notizia della dipartita di qualcuno. Meno spesso, in alternativa, può addirittura essere usato come larvato augurio, per qualcuno ancora in vita, di giungere celermente ...al termine dei propri giorni.

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