~ la lingua e la poesia ~
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introduzione al
DIALETTO ROMANESCO




IN QUESTA PAGINA
  • indice
  • prefazione
  • quando e come è nato il romanesco?
  • 1 - accenti e apostrofe
  • 2 - gli articoli
  • 3 - le preposizioni
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    ultimo aggiornamento
    gennaio 2021


    · INDICE PER ARGOMENTI ·
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    Prefazione
    Quando e come è nato il dialetto romanesco?
    1 - accenti e apostrofe
    2 - gli articoli
    3 - le preposizioni
    4 - dittonghi e trittonghi
    5 - la pronuncia di ce e ci
    6 - sostituzioni di lettere
    7 - il raddoppio di consonanti
     8 - elisioni, aferesi e sincopi
     9 - il vocativo
    10 - i verbi
    11 - note generali di sintassi
      (in preparazione)


    PREFAZIONE

    Contrariamente a quanto avviene per le lingue nazionali, che hanno regole grammaticali codificate da parte di specifiche istituzioni linguistiche preposte a questa funzione, i dialetti sono basati sull'uso quotidiano da parte dei parlanti, ma non hanno regole scritte, né di ortografia né di sintassi. Sono quindi interamente spontanei, venendo tramandati di generazione in generazione. Ma proprio come avviene per tutte le lingue ufficiali, anche i dialetti sono soggetti nel tempo a evolvere, per molteplici fattori sociolinguistici la cui analisi generale esula dagli scopi di questa pagina.
    L'assenza di regole ufficiali si rende manifesta soprattutto nella loro forma scritta. Nel fissarli su carta, infatti, è convenzione tentare di riprodurne i suoni, ma utilizzando le stesse regole fonetiche della lingua nazionale (in questo caso l'italiano), per consentire a qualsiasi lettore di avvicinarsi il più possibile alla corretta pronuncia leggendo il testo come se fosse redatto nel proprio idioma.
    A tracciare le linee guida dell'ortografia dialettale sono sopratutto i maggiori autori, le cui opere forniscono una preziosa matrice a cui attingere. In questo il dialetto roanesco può contare su un vasto corpus letterario, ma proprio per questo motivo è noto anche un discreto numero di varianti ortografiche degli stessi vocaboli.

    L'autore che viene ricordato per la sua attenzione quasi maniacale nel voler riprodurre con esattezza il suono del dialetto è Giuseppe Gioachino Belli, il cui corpus dei Sonetti è anche l'opera più voluminosa mai scritta in qualsiasi dialetto italiano. Per tale motivo, un corretto approccio al romanesco non può che partire dall'esempio di questo autore iconico. al lettore che abbia poca dimestichezza con questo dialetto, però, l'opera di Belli potrebbe causare qualche difficoltà di interpretazione, in particolare la selva di doppie consonanti, di apostrofi di cui è necessario tenere conto nella pronuncia.


    QUANDO E COME È NATO IL DIALETTO ROMANESCO?

    A questa domanda è pressoché impossibile dare una risposta precisa; è invece possibile tracciare un percorso storico dalle origini al vernacolo contemporaneo (piuttosto annacquato per la verità) che si può ascoltare tra i parlanti del luogo, sebbene sempre più di rado. Lo studio di tale evoluzione è possibile grazie al cospicuo volume di documenti e opere redatte nella lingua del volgo, assai più ricco di quanto possa vantare qualsiasi altro dialetto italiano.

    Il primo flebile ma significativo segnale di una divergenza dal sermo vulgaris, cioè il latino parlato nell'alto medioevo, è rappresentato da una brevissima iscrizione graffita sul muro di una cripta nelle catacombe di Commodilla. Attorno all'anno 800, in piena età carolingia, era stata introdotta la pratica liturgica di pronunciare certe orazioni chiamate mysteria, che i chierici bisbigliavano affinché non fossero udite. A titolo di promemoria, qualcuno di essi tracciò su una parete la frase non dicere ille secrita a boce, cioè "non dire quei segreti a voce (alta)", a cui fu in seguito aggiunta una seconda piccola B, perché evidentemente ciò corrispondeva in modo più preciso alla pronuncia dell'epoca. Quindi l'iscrizione ci è pervenuta nella forma non dicere ille secrita a bboce, che testimonia, oltre al betacismo (pronuncia di B per V), anche un raddoppiamento fonosintattico (la doppia consonante), entrambi fenomeni caratteristici dei dialetti meridionali, di cui quello di Roma fino al Cinquecento faceva parte a pieno titolo.

    È databile alla fine dell'XI secolo un famoso affresco nella basilica inferiore di San Clemente, di cui si parla nella sezione Roma leggendaria, in cui si vede il prefetto di Roma Sisinnio rivolgersi spazientito ai suoi tre uomini, incapaci di trascinare via il papa Clemente I, esclamando fili dele pute traite, mentre uno di loro ne incita un altro: falite dereto co lo palo (cioè "fagliti dietro con il palo").

    non dicere ille secrita a bboce

    Nel XIII secolo, a beneficio delle migliaia di pellegrini romei che giungevano a visitare la tomba dell'apostolo Pietro, fu tradotta in volgare una specie di guida ai monumenti e alle cose notabili della città eterna che era stata già redatta in latino almeno un secolo prima. In quest'opera, conosciuta come Le miracole de Roma, la lingua è ancora ricca di latinismi, ma si evidenziano i primi chiari segnali di un'impronta dialettale:
    De lo ioco de Circo.
    Circus Prisci Tarquinii fo de molta belleze, et così fo gradato ke nullo Romano offendea ad l'altro ad vedere lo ioco. Et intorno erano l'arcora ornate de vitro et de auro. Et intorno de sopre erano le case de lo Palazo, dove sedeano le femine ad vedere lo ioco: XIIII dies in kalende de madio se facea lo ioco. Et in meso erano doi agulie; la menore era LXXXII pedes et la maiure CXXIIII pedes. In sumitate ène l'arco triumphale; la dov'è la Torre de l'Arco stava uno cavallo de rame 'narato ke parea ke facesse iusta sì como cavallo ke volesse currere. Et ne l'altro arco, lo quale era in pede, stava un altro cavallo de rame 'narato si como volesse currere.
    Del gioco del Circo.
    Il circo di Tarquinio Prisco
    [il Circo Massimo] fu di grande bellezza, e fu (costruito) a gradini, così che nessun romano disturbasse l'altro nel vedere il gioco. E intorno gli archi erano ornati di vetro e di oro. E intorno in alto erano gli edifici del Palazzo [imperiale], dove sedevano le donne per assistere al gioco; il gioco si svolgeva a 14 giorni dalle calende di maggio. E in mezzo c'erano due obelischi; il minore misurava 82 piedi e il maggiore 124 piedi. All'estremità c'è l'arco trionfale; là dov'è la torre dell'arco c'era un cavallo di rame dorato, che sembrava facesse proprio come un cavallo che volesse correre. E sull'altro arco, che era in fondo, c'era un altro cavallo di rame dorato come se volesse correre.
    Di tale guida si parla in dettaglio in un'altra pagina di questa sezione.

    Nel Trecento, una cronaca a lungo ritenuta anonima, ma attualmente attribuita a Iacobo di Valmontone, oltre a riportare fatti notabili avvenuti nel corso degli anni, e non solo a Roma, racconta dell'ascesa e della fine del tribuno Cola di Rienzo, usando un volgare molto simile a quello dell'opera precedente:
    Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Correva l'anno del Signore 1337, nel mese di agosto, apparve dalle parti della Lombardia una cometa moito splendente e bella, e durò tre giorni. Poi scomparve in aria [nel cielo]. Questa cometa sembrava essere una stella estremamente più lucente delle altre, ed estendeva dietro di sé una chioma distinta, aguzza come una spada, e la punta era sospesa sopra Verona. Questa chioma stava da uno dei lati. Non andava né in su né in giù, ma si stendeva dritta come fosse una fiamma di fuoco. Ciò che questa novità volesse dire indusse molto la gente ad ammirarla.
    Gli elementi che distinguono questo volgare sono ormai abbastanza evidenti e riconoscibili; tra gli altri, l'assimilazione della B dopo la M (Lommardia) e della D dopo la N (splennente) sono ancora oggi caratteristiche ben note del romanesco.
    Della cronaca si può leggere più in dettaglio in questa pagina.

    Verso la metà del Quattrocento viene redatta un'altra opera preziosa sul piano linguistico, il trattato sulla vita di santa Francesca Romana, scritto dal suo padre spirituale; un'ulteriore fonte sono le didascalie che accompagnano gli affreschi nel convento dove la suddetta abitò, che riflettono assai fedelmente quanto riportato nel trattato:
    Tornando la beata Francesca dalla chiesia de sancto Ianni trovavo che nello ponte sancte Marie era tagliato ad uno quasi tucto lo braccio essa beata mossa ad compassione toccandolo subito fu sanato.

    Como la beata Francesca stando in oratione nella soa cella li vennero certi demonii e con certi nervi de animali la battierono tanto crudelmente in muodo che se non fussi lo angelo perche continuamente con essa era assai piu la molestavano.
    Mentre la Beata Francesca tornava dalla chiesa di San Giovanni, sul Ponte Santa Maria trovò uno che aveva il braccio quasi tutto tagliato; la beata, mossa a compassione, lo toccò e fu subito guarito.

    Come mentre la Beata Francesca era in preghiera nella sua cella, andarono da lei alcuni demoni, e con nervi di animale la batterono così crudelmente, che se non vi fosse stato l'angelo, ché stava sempre con lei, l'avrebbero molestata assai di più.
    Per una trattazione più ampia dell'opera si veda la pagina relativa.
    Della seconda metà del secolo, invece, sono le cronache di due diaristi, Stefano Infessura e Paolo dello Mastro, che illustrano i principali accadimenti in città. La prima, Diario della Città di Roma, è redatta per metà in volgare e per metà in latino, e copre un lasso di tempo più lungo, partendo dal Trecento (sebbene le pagine dedicate a questo secolo siano piuttosto poche):
    Nell'anno 1361 del mese di agosto, a di 21 de giovedì, hora di nona, li mastri saliero nello tetto di Santo Ianni per racconciare certe tevole di piombo, et nell'hora dello vespero, quando li canonici dicevano magnificat, vedde uno de essi canonici abbrusciare una tavola et subito gridò allo fuoco. li maestri non se n'erano avveduti, et subito che lo videro, non potiero tanto aiutare che lo foco si li appresciava, et fuggiero via. allhora furono arsi tucti li travi di S. Ianni, et cadiero tre colonne, et tutte l'altre arse, et guastaro lo altare maiore con quattro colonne di diaspro. Nell'anno 1361, nel mese di agosto, il 21 di giovedì, all'ora di nona, i mastri [artigiani] salirono sul tetto di San Giovanni [in Laterano] per aggiustare certe tegole di piombo, e all'ora del vespro, quando i canonici dicevano il magnificat, uno di questi vide bruciare una tegola e subito gridò al fuoco. I mastri non se n'erano accorti, e appena lo videro, non poterono fare molto perché il fuoco si avvicinava loro, e fuggirono via. Allora furono arse tutte le travi di San Giovanni, e caddero tre colonne, e tutte le altre si bruciarono, e si danneggiò l'altare maggiore con quattro colonne di diaspro.
    Nella seconda, invece, le notizie sono riportate in forma più sintetica, provviste di un numero progressivo, spesso con osservazioni personali dell'autore, e tra esse sono inclusi anche eventi privati relativi alla sua famiglia:
    XXVII. Recordo io Pavolo che in nelli 1441 a dii 15 di febraro, e fu di mercordì, in nell’ora delle messe, me nacque da Iacovella mia moglie una mea rede maschio alla quale Benedetto mio padre, perchè nacque de mercordie, che è lo die de santo Lorienzo, volse che li fosse posto nome Rienzo; lo Dio li presti bona ventura in questo mundo e che possa esser buono homo.

    LXXXVIII. Recordo io Pavolo che nelli 1484 a dìi 13 d’agosto, la notte, a cinque hore morì papa Sisto, lo quale fu uno cattio pontefice; in tutto lo suo tempo che visse, .xiii. anni, sempre ce mantenne in guerra e carestia e senza nulla iustitia.
    XXVII. Io Paolo ricordo che nel 1441 il 15 febbraio, e fu di mercoledì, all'ora delle messe, mi nacque da Iacovella mia moglie un mio erede maschio a cui mio padre Benedetto, poiché nacque di mercoledì, che è il giorno di san Lorenzo, volle che fosse imposto nome Renzo; che Dio gli conceda buona fortuna in questo mondo e che possa essere un brav'uomo.

    LXXXVIII. Io Paolo ricordo che nel 1484 il 13 d'agosto, di notte alle cinque morì papa Sisto
    [Sisto IV Della Rovere], il quale fu un cattivo pontefice; per tutto il tempo che visse, tredici anni, ci mantenne sempre in guerra e in carestia, e senza alcuna giustizia.

    Quello descritto finora è il cosiddetto dialetto di prima fase, appartenente al gruppo dei dialetti meridionali.

    Durante il lungo corso del Rinascimento, la lingua del volgo subisce progressive influenze esterne, in conseguenza della sempre più cospicua comunità toscana stabilitasi a Roma. A partire dalla metà del Quattrocento, infatti, per oltre un secolo e mezzo, artisti di spicco, in larga parte originari di Firenze, confluiscono numerosi nella città dei papi, ricevendo importanti commissioni. Il fenomeno tocca il culmine durante il pontificato di Leone X e Clemente VII, entrambi membri della famiglia dei Medici. I grandi pittori, scultori, architetti portano con sé artigiani e maestranze di fiducia, e questi ultimi, a loro volta, si portano dietro le loro famiglie. Il numero dei toscani residenti nell'Urbe, quindi, nel giro di qualche decennio diventa così imponente da produrre un forte impatto linguistico; per comprendere la portata dell'influenza esercitata sui parlanti locali, è bene ricordare che la popolazione a Roma alla fine del medioevo contava ancora solo poche decine di migliaia di persone, e rimane comunque assai contenuta almeno fino alla seconda metà del Cinquecento. Il romanesco, così, gradualmente perde molte delle succitate affinità coi dialetti meridionali (ma non tutte), acquistandone invece col toscano, ma sempre mantenendo dei tratti autonomi, ben definiti. Nasce un po' alla volta il romanesco detto di seconda fase, toscanizzato, a cui appartiene anche la varietà parlata ai nostri giorni. Ma nel corso di quattro secoli e mezzo, anche questo idioma ha continuato a subire delle trasformazioni, e continua a subirne.

    Verso la fine del XVI secolo, proprio nell'ultimo stadio di transizione fra le due fasi, compare la prima opera teatrale in cui i personaggi del volgo parlano in dialetto, in contrapposizione all'italiano parlato dagli esponenti delle classi sociali più agiate e istruite. Nella commedia di Cristoforo Castelletti intitolata Le stravaganze d'amore (1581), Perna è una vecchia serva bisbetica che si esprime in romanesco (un altro dei personaggi lo fa in dialetto napoletano); essendo anziana, il dialetto che parla è più di prima fase che di seconda:
    Uh, sciorno! Se ne trovano delli liesci nello munno, ma non pozzo crede che se ne trovi un altro come ti.
     [Atto II, Scena VIII]

    Annàmo, c'haio ancora a iettà quattro voizonetti de liscìa su la tinozza.
     [...]
    Iamo, dico! Lassa ij questo pascio ne la malora sia.  [Atto II, Scena X]

    Chi ène? Va' alla bon'ora, che adesso 'mpasto la farina; non haio tozzo de pane 'ncasa per datte la limosina.
     [...]
    Va' nella malora, e non ti accostà più a quest'uscio, se non vo che te ietti carche cosa 'ncapo.
     [Atto IV, Scena XV]
    Uh, idiota! Se ne trovano di stupidi al mondo, ma non posso credere che se ne trovi un altro come te.


    Andiamo, che ho ancora da gettare quattro calzette di liscivia sulla tinozza.
     [...]
    Andiamo, dico! Lascia andare questo pazzo alla sua malora.

    Chi è? Va' alla buon'ora, che adesso impasto la farina; non ho un tozzo di pane in casa per farti l'elemosina.

     [...]
    Va' in malora, e non ti avvicinare più a quest'uscio, se non vuoi che ti tiri qualcosa in testa.
    Perna usa voci verbali arcaiche come soco (per "sono"), iamo (per "andiamo", voce del verbo ire), oppure haio (per "ho"); quest'ultima, scomparsa come le altre con la seconda fase, è rimasta invariata nel giudaico romanesco, la variante dialettale parlata per secoli dalla comunità ebraica romana. Si riconoscono ancora la dittongazione della vocale tonica E aperta, in vocaboli come tiempo (per "tempo"), o viecchio (per "vecchio"), il betacismo come in vocca (per "bocca"), vudiella (per "budella"), tutti riscontrabili già nella Cronica trecentesca. Al contrario, una svolta in senso toscano è, ad esempio, la perdita della dittongazione della O tonica aperta, come in occhi (che un tempo veniva corrotto in uocchi), corpo (già cuorpo), ma anche foco (già fuoco), lenzola (già lenzuola).
    Castelletti mostra un chiaro intento di voler relegare il vernacolo a elemento caricaturale, per dare luogo a delle "maschere". Il vernacolo antico doveva forse suscitare l'ilarità degli spettatori più giovani, ma è indubbio che quelli di una certa età lo comprendessero ancora, almeno in parte.

    Nel Seicento la trasformazione in romanesco di seconda fase si completa. Sul finire di questo secolo il vernacolo diventa protagonista per la prima volta dell'intero componimento di due poemi eroicomici, Il maggio romanesco (1688) di Camillo Peresio, seguito sette anni dopo da Meo Patacca, di Giuseppe Berneri, entrambi in ottava rima. Le due opere, tuttavia, sono fortemente criticate dai puristi per essere composte in un idioma che in realtà è un curioso compromesso, un ibrido tra la lingua italiana del tempo e il vero vernacolo parlato dal volgo:
    Sciocco è colui che ce pretende, e crede,
    sfuggir d'Amore li puntuti dardi,
    ma stia securo, e tenga pur pe' fede
    che colto certo sarà, ò presto ò tardi:
    scarpini quanto vò lontano el piede
    pè desprezzare l'amorosi sguardi,
    che quando pensa de star più deviso,
    a un tratto Amor lo sbuscia a l'improviso.


     [Camillo Peresio, Il maggio romanesco - III, 1]
    Sciocco è colui che si dà delle arie, e crede
    di poter sfuggire agli acuminati dardi dell'Amore,
    ma stia sicuro e tenga pure per certo
    Che prima o poi verrà colpito;
    cammini pure quanto lontano lo porta il piede
    per disprezzare gli sguardi amorosi,
    Che quando pensa di essere più nascosto
    A un tratto Amore lo colpisce all'improvviso.
    Nell'opera di Berneri sono numerose le descrizioni dei luoghi di Roma, teatro degli avvenimenti narrati nel poema:
    Più ch'in ogn'altro loco, assai gustosa
    rescì 'sta festa in una strada ritta,
    longa un miglio, et in Roma assai famosa;
    pe' nominata antica el Corzo è ditta.
    Nel Carnevale è piena 'sta calcosa
    di gente così nobil, come guitta,
    a diluvio le maschere ce vanno,
    e la Curza, li Barbari ce fanno.


     [Giuseppe Berneri, Meo Patacca - VII, 67]
    Più che in qualsiasi altro luogo, assai bene
    questa festa riuscì in una strada dritta,
    lunga un miglio, e a Roma assai famosa;
    per antica denominazione è detta il Corso.
    Nel Carnevale questa via è piena
    di gente tanto nobile quanto povera,
    le maschere vi vanno in gran numero,
    e i
    [cavalli] barberi vi fanno la corsa.
    Di quest'ultima opera si può leggere più ampiamente nelle pagine a essa dedicate.

    Proprio negli stessi anni in cui compaiono i suddetti poemi, a Roma viene fondata l'Accademia dell'Arcadia, che come obiettivo si pone quello di riformare la poesia per riportarla alla sua iniziale purezza, liberandola dagli orpelli dell'età barocca. Nel Settecento quindi il dialetto continua a essere ancor più di prima lingua del volgo, per lo più negletta dagli uomini di lettere. Tuttavia anche in questo secolo si contano sporadici esempi di autori un po' controcorrente, come Benedetto Micheli (1699-1784), un musicista di discreto successo che a un certo punto della sua carriera, caduto in disgrazia a causa di due non meglio precisati "incidenti", viene spinto per reazione ad abbandonare gli spartiti e a diventare poeta dialettale; tra le sue produzioni si conta un altro poema eroicomico, La libbertà romana acquistata e defesa, in cui i personaggi della storia antica di Roma si mescolano con figure popolari.
    Alza Roma screpante, alza le creste
    su le nazione, ch'ài domate, e guaste:
    galleggia pur su quele gente e queste
    e i tui nemmichi butta giù a cataste


     [dal sonetto Pe' la città de Roma]
    Alza o Roma fastosa, alza la cresta
    sulle nazioni che hai domato e sconfitto;
    fa' la spavalda su quei popoli e su questi
    e abbatti i tuoi nemici in gran numero
    È un dialetto in cui si percepisce la mano di un autore istruito, che si sforza di parlare come il volgo, ma usa spesso costruzioni sintattiche complesse, fa riferimenti colti, che non sembrano usciti dalla bocca di un popolano.

    Sul finire del XVIII secolo tra lo Stato Pontificio e la Repubblica Francese nascono degli attriti, che culminano nell'occupazione di Roma da parte delle truppe del generale Berthier (1798-99); Pio VI viene deposto, e viene proclamata la prima Repubblica Romana. Nel 1809 l'occupazione si ripeterà, questa volta da parte delle truppe napoleoniche al comando del generale Miollis, e durerà fino alla caduta dell'imperatore francese, nel 1814. Durante questi anni compare un gran numero di composizioni anonime, dai contenuti fortemente conservatori e antifrancesi, redatte in varie lingue: italiano, latino, romanesco, quest'ultimo più verace di quello usato da Micheli:
    De sti Frosciacci porchi l'insolenza
    non se deve da noi più sopportane
    mo nun è tempo più d'avé prudenza
    nun s'intenne altra legge che menane


     [dal sonetto Coraggio dei Trasteverini]
    L'insolenza di questi porci Francesi
    da noi non dev'essere più sopportata
    ora non è più tempo di avere prudenza
    non si ammette altra legge che usare la forza fisica
    Tali composizioni, chiamate nel loro insieme Misogallo romano (per distinguerle dal Misogallo di Vittorio Alfieri, di poco precedente, ma ispirato dagli stessi sentimenti) si ritengono essere opera di membri dell'aristocrazia oppure del clero, come forma di propaganda papista destinata al popolo, almeno per quanto riguarda quelle in dialetto. È proprio in questi componimenti che compare per la prima volta l'articolo determinativo maschile er, tutt'ora presente nel dialetto romanesco contemporaneo, che in precedenza veniva trascritto el (Berneri, Micheli), o addirittura ignorato:
    Mannaggia li Francesi e chi gle crede
    vonno venì a Roma pe le strade
    a facce rinunzià la Santa Fede

    Io vojo stà a vedé, chi sarà er primo
    de casa no' me parto, e no' me movo,
    una botta de fuso, e la finimo.


     [da Pe quanno verranno a Roma li Francesi]
    Accidenti ai Francesi e a chi crede loro
    vogliono venire a Roma per le strade
    per farci rinunciare alla Santa Fede

    Io voglio vedere chi sarà il primo
    non mi allontano né mi muovo da casa,
    una coltellata e la facciamo finita.
    Quando tra il secondo e il quarto decennio del XIX secolo Giuseppe Gioachino Belli compone i suoi sonetti, è forse il primo degli autori dialettali a porre una particolare attenzione all'aspetto linguistico, anche sul piano ortografico, tanto che buona parte dell'introduzione alla raccolta è costituita da note di grammatica e di fonetica del romanesco. Per questo la sua vastissima produzione è considerata la testimonianza più attendibile dell'idioma in uso nella prima metà dell'Ottocento:
      La papessa Ggiuvanna

    Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ’r zinale
    prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
    doppo se fesce prete, poi prelato,
    e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.

    E cquanno er Papa maschio stiede male,
    e mmorze, c’è cchi ddisce, avvelenato,
    fu ffatto Papa lei, e straportato
    a Ssan Giuvanni su in zedia papale.

    Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
    ché ssanbruto je preseno le dojje,
    e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.

    D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa
    pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
    si er pontescife sii Papa o Ppapessa.


    26 novembre 1831
      La papessa Giovanna

    Fu proprio donna. Gettò via il grembiule
    prima di tutto e si arruolò soldato;
    dopo si fece prete, poi prelato,
    e poi vescovo, e infine Cardinale.

    E quando il Papa uomo stette male,
    e morì, c’è chi dice, avvelenato,
    fu fatto Papa lei, e trasportato
    a San Giovanni sulla sedia papale.

    Ma qua si sciolse il nodo alla commedia;
    perché ex abrupto le vennero le doglie,
    e partorì un neonato lí sulla sedia.

    Da allora venne messa quest'altra sedia
    per tastare sotto il sito delle voglie
    [i genitali]
    se il pontefice sia Papa o Ppapessa.

    Con la caduta dello Stato Pontificio e la proclamazione di Roma a capitale del neonato Regno d'Italia (1870), il dialetto comincia ben presto ad addolcirsi per effetto delle trasformazioni sociali, che portano alla nascita di una nuova classe, la piccola borghesia; questa si esprimeva ancora in romanesco, ancorchè meno rozzo di quello parlato dal volgo. Contribuisce ad appianare le ruvidità dialettali anche l'espansione demografica: migliaia di immigrati provenienti da terre a lungo appartenute al papa, come l'Umbria, le Marche, la Romagna meridionale, si riversano a Roma, "diluendo" l'asprezza dell'idioma belliano. Di tale fenomeno sono un chiaro esempio le poesie di Cesare Pascarella. Anche l'ortografia più semplice degli autori di questo periodo, ad esempio una notevole riduzione nell'uso delle tante consonanti doppie che Belli invece scriveva, giudicandole "sommo abuso di lettere", rende più facile al lettore inesperto la comprensione del vernacolo:
    L'amichi? Te spalancheno le braccia
    Fin che nun hai bisogno e fin che ci hai;
    Ma si, Dio scampi, te ritrovi in guai,
    Te sbatteno, fio mio, la porta in faccia.


     [Cesare Pascarella, dal sonetto 'Na predica de mamma]
    Gli amici? Ti spalancano le braccia,
    Finché non hai bisogno e finché hai del tuo,
    Ma se, Dio non voglia, ti trovi nei guai,
    Figlio mio, ti sbattono la porta in faccia.
    Si noti, ad esempio, la grafia per esteso del cosiddetto ci attualizzante davanti al verbo "avere", come in ci hai, che Belli scriveva in forma univerbata ciai.
    Gli autori che, al contrario, tentano di frenare tale deriva linguistica nel dialetto scritto, rifacendosi all'esempio del maestro Belli anche nell'ortografia, come Giggi Zanazzo e Filippo Chiappini (quest'ultimo autore del primo dizionario romanesco), sono sempre meno numerosi:
      Er diputato de la bbonificenza

    Stava, te dico, quanno ch'io ciaggnede,
    Solo solo a ppijjà la cioccolata,
    Dico: «Eccellenza, io nun m'arèggo in piede,
    Mi' fia da jjeri nun z'è sdiggiunata»,

    Dice: «Dio! Che mmiseria! Avete fede?»
    Dico: «Sì, ssémo ggente timorata».
    Dice: «Bbravi! Chi è bbôno Iddio provéde,
    E la strada pe' vvoi è bbell'e ttrovata».

    Dico: «Iddio l'arimeriti, eccellenza».
    Dice: «La sera diteve e' rosario,
    E Iddio ve mannerà la providenza».

    Detto accusì, bbatté ssur tavolino,
    Me fece caccià vvia dar zegretario,
    E sse mésse a mmaggnà 'n antro grostino.


     [Filippo Chiappini, 1875]
      Il deputato della beneficenza

    Stava, ti dico, quando io ci andai,
    Solo solo a prendere la cioccolata,
    Dico: «Eccellenza, io non mi reggo in piedi,
    Mia figlia è a digiuno da ieri»,

    Dice: «Dio! Che miseria! Avete fede?»
    Dico: «Sì, siamo gente timorata».
    Dice: «Bravi! Per chi è buono Iddio provvede,
    E la strada per voi è bell'e trovata».

    Dico: «Iddio vi renda merito, eccellenza».
    Dice: «La sera ditevi il rosario,
    E Iddio vi manderà la provvidenza».

    Detto ciò, batté sul tavolino,
    Mi fece cacciar via dal segretario,
    E si mise a mangiare un altro crostino.
      Contro l'orzaròli

    Quanno, puta caso, accanto a ll’occhi ve viè’ uno de quela specie de pedicèlli che a Roma se chiàmeno orzaròli, l’unico rimedio pe’ ffalli sparì’ subbito, è quello de cucì’ ll’occhio. O ppe’ ccapisse mejo, de fa infinta de cucillo; perchè sse deve pijà’ ll’ago infilato e ffa’ infinta come si uno se cucisse l’occhio pe’ ddavero.
    Oppuramente, abbasta a ffasse toccà’ l’orzarolo da una donna gravida, pe’ gguarì’ lo stesso.


     [Giggi Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi
     del popolo di Roma
    , 1908]
      Contro gli orzaioli

    Quando, mettiamo, vicino gli occhi vi viene uno di quella specie di foruncoletti che a Roma si chiamano orzaioli, l'unico rimedio per farli sparire subito è quello di cucire l'occhio. O, per maggior chiarezza, di fare finta di cucirlo; perché si deve prendere l'ago infilato e fare finta, come se uno si cucisse l'occhio per davvero.
    Oppure, basta farsi toccare l'orzaiolo da una donna gravida per guarire ugualmente.
    Gli anni del fascismo tornano a essere un periodo di magra per la produzione dialettale. Il regime osteggia gli idiomi locali, promuovendo invece la diffusione di una lingua nazionale unica. Solo Trilussa, già conosciuto e stimato fin dai primi due decenni del secolo, riesce ad emergere in questo periodo opaco con la pubblicazione di una decina di raccolte di poesie, edite dalla milanese Mondadori, in cui il dialetto, come pure tra i parlanti, continua a subire un ulteriore "imborghesimento":
    Un povero Villano,
    mentre tajava er grano,
    s'accorse che una Vipera agguattata
    stava pe' daje un mozzico a la mano.
    – Ah – dice – t'annisconni, brutta boja!
    Ma se t'abbasta l'anima esci fòra:
    te fo passà la voja
    d'avvelenà la gente che lavora!

    [da La vipera]
    Un povero contadino
    mentre tagliava il grano
    si accorse che una vipera nascosta
    stava per dargli un morso alla mano.
    – Ah – dice – ti nascondi, brutta disgraziata!
    Ma esci fuori, se hai il coraggio:
    ti faccio passare la voglia
    di avvelenare la gente che lavora!


    Anche dopo la caduta del fascismo il dialetto viene ancora penalizzato da una pessima reputazione: è considerato il modo di esprimersi dei tanti privi di un'istruzione, coincidendo quasi invariabilmente con una bassa posizione sociale. Anche gli altri dialetti d'Italia dovranno portare questo pesante fardello per dei decenni.
    Il merito di aver insegnato l'italiano agli italiani, obiettivo lungamente perseguito fin dall'unità del paese, spetta alla TV; nell'arco del ventennio tra la metà degli anni '50 e la metà degli anni '70, la difficile impresa, in cui persino la scuola aveva fallito, riesce al nuovo mezzo televisivo, che parla alla gente entrando direttamente nelle loro case. Ma il piccolo schermo, proprio per ottenere il risultato suddetto, all'inizio dà spazio solo all'italiano standard; del resto così era stato anche per la radio nei decenni precedenti. Il cinema e la letteratura, invece, lasciano aperto uno spiraglio al romanesco, unico tra i dialetti italiani, nel filone del neorealismo e nei dialoghi dei romanzi di autori quali Gadda e Pasolini:
    «Se sa che quanno uno va pe rubbà, lì de fora c'è quello che je fa da palo... Quelli, dateme retta, sor commissario, quelli... ereno d'accordo...»

    [Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto
     de via Merulana
    , Cap.1]
    «Si sa che quando uno va per rubare, lì fuori c'e quello che gli fa da palo... Quelli, datemi retta, signor commissario, quelli... erano d'accordo...»


    – Pronto, – fece poi, da persona compita, – che sei te Nadia? Senti un po’... Ce sarebbe un affaretto... Che c’hai tempo oggi?... de vení a Ostia... a Ostia, sì... Che?... sí, aòh, che, so’ un chiacchierone io?... Ma è ssicuro, è ssicuro!... C’aspetti ar Marechiaro, ha’ capito, ar Marechiaro... Lí indove ce sta ’a pista, lí davanti... Sí, sí, come l’artra vorta... A ’e tre tre e un quarto... Vabbè... te saluto, aaaa cosa! –

    [Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Cap.II]
    – Pronto, – fece poi, da persona compita, – sei tu Nadia? Senti un po’... Ci sarebbe un affaretto... Hai tempo oggi?... di venire a Ostia... a Ostia, sí... Che?... sì, ehi, sono forse un chiacchierone io?... Ma è sicuro, è sicuro!... Ci aspetti al Marechiaro [stabilimento], hai capito, al Marechiaro... Lì dove c'è la pista, lí davanti... Sí, sí, come l’altra volta... Alle tre, tre e un quarto... Va bene... ti saluto, cosa! – [cosa è un nome generico in sostituzione di quello dell'interlocutrice, che al parlante non sovviene]
    Con Pasolini compaiono per la prima volta in letteratura elementi di romanesco contemporaneo, quali la caduta della L negli articoli determinativi ('a pista per "la pista", a 'e tre per "alle tre"), e vengono rese graficamente le vocali pronunciate lunghe (aaaa cosa). Inoltre il cosiddetto ci attualizzante usato con il verbo avere è scritto in forma elisa (c'hai tempo per "ci hai tempo"), una grafia oggi assai comune ma poco felice, cfr. le note generali di sintassi, anche perché in alcuni casi si presta ad ambiguità interpretative; ad esempio c'aspetti, che in questo caso corrisponde a "ci aspetti", secondo le regole fonetiche italiane andrebbe interpretato "che aspetti", perché la C seguita da A ha sempre la pronuncia velare.

    È solo nella seconda metà del XX secolo che ricomincerà gradualmente a nascere un interesse e soprattutto un rispetto nei confronti delle realtà locali, compresi i numerosi idiomi. Tra le opere più notevoli di questo periodo va segnalato Er vangelo seconno noantri (1971), di Bartolomeo Rossetti, un poema che riassume in 333 sonetti il contenuto dei quattro Vangeli canonici, sempre interpretati secondo il punto di vista di un popolano:
    Intanto certi Maghi, dall'Oriente,
    doppo ave' tanti giorni camminato,
    fecero tappa, pe' pijà un po' fiato,
    dentro Gerusalemme, finarmente!

    E a ogni passo chiedevano a la gente
    er re de li Giudei 'ndov'era nato:
    "Noi, fino a qui, 'na stella ci ha guidato,
    puro de giorno, tanto era lucente".

    Sentennoli parlà de 'sta cometa
    e de 'sto re potente, Erode er Vecchio
    ripensò a le parole der profeta.

    'Sto re de Giuda je scocciò parecchio,
    e a Betlemme 'sta nascita segreta,
    je mise un po' la purce nell'orecchio.
    Intanto certi Maghi, dall'Oriente,
    dopo aver camminato tanti giorni,
    fecero tappa, per prendere un po' fiato,
    dentro Gerusalemme, finalmente!

    E a ogni passo chiedevano alla gente
    dove fosse nato il re dei Giudei:
    "Noi, fino a qui, siamo stati guidati da una stella,
    anche di giorno, tanto era lucente".

    Sentendoli parlare di questa cometa
    e di questo re potente, Erode il Vecchio
    ripensò alle parole del profeta.

    Questo re di Giuda gli diede parecchio fastidio,
    e a Betlemme questa nascita segreta,
    gli mise un po' la pulce nell'orecchio.
    Quello di Rossetti è un romanesco ormai molto leggero, comprensibile a chiunque, privo di doppie consonanti all'inizio dei vocaboli, che perde anche alcuni elementi caratteristici del dialetto "classico" (ad esempio dentro anziché drento; chiedevano e non chiedeveno; nell'orecchio e non più in de l'orecchio).

    In chiusura, vale la pena ricordare la versione in vernacolo di un celebre racconto di Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, dal titolo Er principetto (edito nel 2011), in realtà una traduzione della versione italiana, seppure con qualche minima licenza. Essendo un'opera in prosa, tanto nel lessico che nella sintassi si apprezza più che in poesia l'effettiva aderenza al "buon romanesco" parlato:
    Ner primo asteriode ciabbitava un re. Er re, vestito de porpora e de ermellino, stava a sede su un trono semprice e inzieme maestoso.
    "Ah! ecco un suddito", disse er re appena vidde er principetto.
    E er principetto s'addimannò:
    "Ma come fa a riconosceme si nun m'ha visto mai?"
    Nu' lo sapeva che pe li re er monno è facile facile. Tutti l'ommini sò sudditi.
    "Viè più vicino, fatte vedé mejo", je disse er re che nun je pareva vero de poté commannà su quarcuno.
    Er principetto se guardò attorno pe cercà quarche cosa indo' mettese a sede, ma tutto er pianeta era occupato dar manto de ermellino. Je toccò de restà in piedi, ma era tarmente stracco che je scappò 'no sbavijo.


    [Er principetto, X]
    Il primo asteroide era abitato da un re. Il re, vestito di porpora e d'ermellino, sedeva su un trono molto semplice e nello stesso tempo maestoso.
    "Ah! ecco un suddito", esclamo' il re appena vide il piccolo principe.
    E il piccolo principe si domandò:
    "Come può riconoscermi se non mi ha mai visto?"
    Non sapeva che per i re il mondo è molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi.
    "Avvicinati che ti veda meglio", gli disse il re che era molto fiero di essere finalmente re per qualcuno.
    Il piccolo principe cercò con gli occhi dove potersi sedere, ma il pianeta era tutto occupato dal magnifico manto di ermellino. Dovette rimanere in piedi, ma era tanto stanco che sbadigliò.


    [versione ufficiale italiana]


    La scarsa considerazione per i dialetti, e in particolare verso quello di Roma, ha origini lontane e insospettabili. È Belli stesso a parlare per primo di romanesco (anziché di romano, come si fa col napoletano, col milanese, col fiorentino), bollandolo con quel suffisso peggiorativo che conferisce al nome un'accezione dispregiativa. L'autore chiama romaneschi anche coloro che lo parlano. Ciò non deve stupire: Belli era un purista della lingua, legato anche a certi arcaicismi già in disuso ai suoi tempi, e in quanto tale disprezzava la corruzione che il volgo ne faceva, pur tuttavia studiando e utilizzando tale idioma al fine di «lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma», come scrive nell'introduzione ai Sonetti (si veda anche l'antologia su questo autore).
    Ma già molto prima di lui, sette secoli fa, nientemeno che Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia, opera sui volgari parlati allora nelle varie parti della penisola italica, si era scagliato contro il modo di parlare dei romani e contro i romani stessi, con parole che definire una stroncatura è un eufemismo:
    Sicut ergo Romani se cunctis preponendos existimant, in hac eradicatione sive discerptione non inmerito eos aliis preponamus, protestantes eosdem in nulla vulgaris eloquentie ratione fore tangendos. Dicimus igitur Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere. Dicunt enim: Messure, quinto dici?
     [De vulgari eloquentia - Liber I, XI, 2]
    Poiché i romani reputano di dover essere collocati al primo posto, in questa epurazione ed eradicazione li poniamo giustamente avanti agli altri, affermando che essi non vanno presi in considerazione in alcuna opera sul dialetto. Diciamo infatti che quello dei romani non è dialetto, ma piuttosto un pessimo modo di parlare, tra tutti i dialetti italiani è il più orrendo; né c'è da stupirsi, perchè essi appaiono i più laidi anche per la bruttezza dei modi e delle abitudini. Infatti usano dire: Messure, quinto dici? ["Messere, come / che cosa dici?"]
    Occorre ricordare ancora una volta che la lingua parlata a Roma nel Trecento non era certo quella di Belli o di Trilussa (cfr. ad esempio Cronica), anche se alcuni vocaboli arcaici come quinto (o chinto) per "che cosa" erano diffusi un po' in tutta l'Italia centrale, e non solo a Roma. Dalle parole di Alighieri traspare un chiaro risentimento, forse non disgiunto anche da un certo pregiudizio, probabile conseguenza dell'esilio che pochissimi anni prima era stato inflitto al poeta dopo l'ascesa al potere a Firenze dei guelfi neri, favorita dal papa Bonifacio VIII. Inoltre, nello stesso trattato non vengono risparmiate aspre critiche neppure agli altri idiomi della penisola italica. Ma in fondo, il fatto che il nostro modo di esprimerci a Dante non piacesse lascia noi romani alquanto indifferenti.

    Le pagine che seguono sono un tentativo di sintetizzare la grammatica e l'ortografia del romanesco; ciò potrebbe apparire un ossimoro, perché per definizione un dialetto non segue regole grammaticali se non quelle dettate dall'uso comune (che, semmai, deviano da quelle dell'italiano standard), né segue regole ortografiche, essendo il dialetto scritto, come detto anche in precedenza, un tentativo di riprodurre graficamente i suoni dell'idioma parlato, secondo scelte che possono variare da autore ad autore.
    Ma è comunque un mezzo senza il quale l'approccio a qualsiasi vernacolo sarebbe impossibile, nonostante il romanesco sia, tra i numerosi dialetti italiani, il secondo più facilmente comprensibile dopo il toscano.
    Questa iniziativa, priva di qualsiasi seria pretesa didattica, si prefigge come unico scopo quello di suscitare l'interesse dei non romani, ma anche di offrire uno spunto di riflessione ai tanti romani delle nuove generazioni, che magari parlano alla perfezione tre o quattro lingue straniere, ma poi stentano a comprendere chi al mercato li invita a capà le perziche.

    In calce ad alcuni paragrafi si è ritenuto opportuno sottolineare le principali differenze tra romanesco "classico" e quello moderno, parlato attualmente; tali parti sono segnalate da una linea rossa. Sono state altresì filtrate le forme gergali, appannaggio soprattutto dei più giovani, che però negli anni sono divenute via via sempre più numerose, stratificandosi sul vero dialetto, e contribuendo a inquinare la parlata.




    Ma nun c'è lingua come la romana
    Pe dì una cosa co ttanto divario
    1
    Che ppare un magazzino de dogana.

    da Le lingue der monno, Giuseppe Gioachino Belli
    1. -varietà





    A chi fosse interessato al dialetto romano classico segnalo anche la SCOLA DE DIALETTO di Spartacus Quirinus (al secolo, Claudio Francesconi).




    1. ACCENTI E APOSTROFI
    La pronuncia delle vocali romane segue quella delle italiane, con la "a" quasi sempre molto aperta.
    A causa della storpiatura dei vocaboli si fa spesso ricorso agli accenti grafici, per segnare le vocali toniche (portatrici di accento) ed anche per indicare la corretta pronuncia delle "e" e delle "o", cioè aperte o chiuse. Purtroppo tra i vari autori c'è una certa disomogeneità nel modo di marcare tali suoni.
    Per indicare le vocali aperte, ad esempio, Belli fa uso tanto dell'accento circonflesso (ê, ô) quanto dell'accento grave (è, ò), che usa indistintamente: èsse oppure êsse (per essere), lègge o lêgge (per leggere), o (per può), e via dicendo.
    Per altri vocaboli il tipo di accento si mantiene costante: scèrta (per certa), Marcurèlio (per Marco Aurelio), e così via.

    Gli accenti acuti (suono chiuso) sono usati meno spesso, soprattutto per le "o": tra gli scarsi esempi sono (per adesso, ora, usato spessissimo), róppe (per rompere), córpo (per colpo), spósa (per "donna maritata, comare", che in romano si pronuncia con la "o" molto stretta).

    In alcuni casi, oltre ad indicare il corretto suono, gli accenti aiutano a non confondere il vocabolo scempiato con un'altro di grafia simile: vòi o vôi per vuoi lo rende riconoscibile da voi (pronome personale); pòi o pôi (per puoi) lo distingue da poi (avverbio), bòtte o bôtte (cioè colpi, percosse) da botte (barile).

    Anche sulla "i" compare, seppure di rado, l'accento circonflesso (î) per esprimere foneticamente il suono ij (corruzione romana di gli), come in fîo (per figlio), o mîa (per miglia), sebbene più spesso in questi vocaboli la seconda "j" abbia un suono forte: pertanto la "j" raddoppia e la grafia diventa fijjo, mijja. Da notare anche che mentre nella prima forma i vocaboli sono monosillabi, fijjo e mijja sono bisillabi, quindi a volte la scelta è anche dettata da esigenze metriche.

    Altre vocali accentate possono talora comparire solo per indicare la posizione dell'accento tonico, come in annàcce (per andarci), ficcàsselo (per ficcarselo), trovàccese (per trovarcisi), e così via. Ma in un'ampia maggioranza dei casi le vocali sono semplici e la loro corretta pronuncia è lasciata all'esperienza del lettore.

    Infine, un discorso a parte merita la grafia dei verbi all'infinito, che in romanesco è solitamente tronca, per perdita dell'ultima sillaba -re. E qui si pone il problema di come rendere tale suono, cioè se segnalare al lettore con l'apostrofo che una sillaba è mancante, oppure con una vocale accentata per indicare che va letta come le parole ossitone ("città", "caffè", "falò", ecc.). E in questo ogni autore si regola autonomamente.
    Belli adotta la seconda soluzione (camminà per camminare, poté per potere, venì per venire, e via dicendo), confidando che il lettore sappia già che in romanesco l'infinito dei verbi manca di una sillaba. Tale scelta, come si vedrà nel paragrafo RADDOPPIO DI CONSONANTI, ha un suo senso.
    Pascarella e Zanazzo usano sia l'accento che l'apostrofo: camminà', poté', venì', indicando entrambi i fenomeni.
    Trilussa usa solo l'accento, come Belli; ma per i verbi che una volta troncati rimangono monosillabi usa l'apostrofo (fa', di', da', ecc.), perché accentarne la vocale sarebbe inutile.
    Molti altri autori più moderni, invece, usano prevalentemente l'apostrofo: cammina', pote', veni', preferendo avvisare ll lettore dell'elisione.
    Viceversa, per i verbi con accento sdrucciolo (prendere, chiedere, vivere) Pascarella segnala l'elisione (prende', chiede', vive'), mentre gli altri autori solitamente accorciano il verbo per apocope, limitandosi eventualmente a segnare la vocale tonica (prènne, chiede, vive).

    Tuttavia quando il verbo all'infinito in forma tronca si viene a trovare in fondo alla frase, in passato era comune allungarlo nuovamente di una sillaba finale, -ne, fenomeno detto epitesi, che curiosamente sostituiva quella "legittima" (-re) restituendo al verbo il numero di sillabe originali:
    farefa'fane

    mangiaremagnàmagnane

    dareda'dane
    Tra i frammenti mostrati in precedenza, la quartina tratta da Coraggio dei Trasteverini contiene per l'appunto due esempi di epentesi: sopportane e menane.
    Nel dialetto di prima fase anche la voce verbale "è" era normalmente allungata in ène (in Le stravaganze d'amore Perma chiede: Chi ène?).
    L'epentesi non interessa mai i verbi con l'infinito sdrucciolo: ad esempio "chiedere" rimane chiede (non chiedene).


    2. GLI ARTICOLI

    QUADRO SINOTTICO DEGLI ARTICOLI


    il
    lo
    i
    gli
    la
    le
    un
    uno
    una

    er
    lo
    li
    l'
    la
    le
    un ('n)
    'no
    'na


    Un ulteriore cambiamento avviene quando gli articoli er e un sono seguiti da alcune consonanti (vedi tabella sottostante), che inducono il romano a non pronunciare la "r" o la "n" dell'articolo (elisione) e a raddoppiare la consonante successiva, tranne nel caso in cui questa sia "r", come dal seguente schema:

    SUONO
    ORIGINALE

    PRONUNCIA
    EFFETTIVA

    er l-
    e' ll-
    er lagoe' llago
    er r-
    e' r-
    er ree' re

    un l-
    u' ll-
    un limoneu' llimone
    un m-
    u' mm-
    un maschiou' mmaschio
    un n-
    u' nn-
    un nodou' nnodo
    un r-
    u' r-
    un ramou' ramo

    Stranamente, queste forme non si trovano nei sonetti di Belli. Al contrario, sono usate frequentemente nelle opere del suo epigono Giggi Zanazzo (1860-1911), il cui lessico è ritenuto il più simile a quello di Belli.
    Nel dialetto parlato questa regola fonetica è ancora comunemente applicata.



    DIALETTO MODERNO
    Tutti gli articoli che cominciano per "l" tendono a perderla (aferesi), specialmente nel linguaggio parlato:

    la sposa
    le strade
    lo straccio
    gli scogli
    CLASSICO
    la sposa
    le strade
    lo straccio
    li scoji





    MODERNO
    'a sposa
    'e strade
    'o straccio
    'i scoji
    Si noti che 'a, 'e, 'o, 'i hanno in pratica lo stesso suono di una vocale semplice, ma dal suono leggermente più lungo.

    Per questa ragione anche i sostantivi maschili plurali che in italiano prendono l'articolo i e in romanesco dovrebbero tradizionalmente prendere li, nel dialetto moderno rimangono invariati per la caduta della l:

    i santi
    i lampioni
    i ragazzi
    i cani
    CLASSICO
    li santi
    li lampioni
    li regazzi
    li cani





    MODERNO
    i santi
    i lampioni
    i regazzi
    i cani
    Tale cambio vale anche nella costruzione delle preposizioni composte (vedi sotto).




    3. LE PREPOSIZIONI
    In romano le preposizioni semplici restano simili a quelle italiane, con tre sole differenze: di che diventa de, con abbreviato in co e infine per abbreviato in pe. Si noti che le ultime due nell'ortografia di Belli sono scritte senza l'apostrofo, mentre molti degli autori successivi, interpretandola come un'elisione, le fanno seguire dall'apostrofo e scrivono: co' e pe'.

    di a da in con su per tra fra
    de a da in co su pe tra fra

    La tabella non tiene in considerazione l'eventuale raddoppio della prima consonante, o altre modificazioni di natura fonetica, eventualmente risultanti dall'uso delle preposizioni nel contesto della frase, quando cioè sono precedute da un altro vocabolo (ad esempio, pagà ppe ttutti).

    Invece le preposizioni composte divergono da quelle italiane in modo più evidente.

    Secondo lo schema generale, quando la preposizione composta è seguita da un vocabolo che comincia per consonante, quasi sempre si scinde nelle sue componenti di base, cioè preposizione semplice + articolo. Viceversa, quando è seguita da vocale (e quindi è elisa, con l'apostrofo), la preposizione rimane composta. Inoltre tutte le preposizioni composte che terminano per "l" (non apostrofata), quali del, al, dal, ecc. cambiano tale consonante con la r (vedi anche paragrafo successivo, CAMBIO DI L CON R).



    introduzione al DIALETTO ROMANO
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