~ curiosità romane ~
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il ghetto di Roma
e il ghettarello



La comunità ebraica di Roma è considerata la più antica al mondo, poiché se ne conosce l'esistenza sin dal tardo II secolo aC. A quell'epoca gli ebrei giungevano in larga parte come schiavi, provenienti dalla Palestina sotto il dominio romano; ma si ricorda anche un'alleanza militare stipulata tra Roma e Giuda Maccabeo, condottiero degli ebrei in rivolta contro l'Impero Seleucide nel 167 aC.

Tanto nei primi secoli quanto durante tutto il medioevo, la comunità residente a Roma non ebbe particolari difficoltà di convivenza con la popolazione cristiana; la loro principale attività era il commercio. Ma i tempi si fecero duri nel tardo Rinascimento quando i papi, dopo lo scisma protestante e sull'onda della successiva Controriforma, inasprirono il loro atteggiamento nei confronti di chiunque non aderisse all'ortodossia cattolica. Nel 1555 il neoeletto pontefice Paolo IV decise di rinchiudere l'intera comunità ebraica entro un'area molto ristretta e impose severe leggi discriminatorie. Questa non fu l'unica misura repressiva per cui questo papa viene ricordato: nel 1559 istituì l'Indice dei Libri Proibiti, una lunga lista di titoli che tra gli altri comprendevano qualsiasi testo scritto da autori non cattolici, a prescindere dall'argomento, qualsiasi edizione della Bibbia considerata non ortodossa, qualsiasi libro di astrologia e predizioni.
Inoltre era fatto divieto di leggere la versione autorizzata della Bibbia in volgare a qualsiasi donna e a chiunque non conoscesse il latino (a tal fine era richiesto uno specifico permesso).

(a sin.) il ghetto nel 1748, secondo la pianta di Roma di Giambattista Nolli, a confronto con la stessa area in epoca attuale: il confine del recinto è segnato in rosso e sono visibili i suoi cinque accessi, chiusi da portoni; un sesto accesso, aperto nel 1825 quando il ghetto fu ampliato, è indicato dal cerchio tratteggiato; si noti la pressoché totale scomparsa dell'antica planimetria, a partire dal 1888 (cfr. anche l'illustrazione in fondo alla pagina), e la leggera variazione del letto del Tevere


La zona in cui furono confinati gli ebrei era conosciuta come il ghetto (dal nome dell'analoga enclave istituita a Venezia già nel 1516). Comprendeva le poche vie situate fra piazza Giudea (oggi scomparsa), i resti del Portico d'Ottavia (per maggiori dettagli si vedano I Rioni, Sant'Angelo ed Ettore Roesler Franz e Roma Sparita, pagina 5) e la riva del Tevere presso l'Isola Tiberina. Oggi gran parte delle antiche vie non esiste più e la topografia complessiva è alquanto cambiata, come si evince dal confronto delle immagini a destra.
In seguito alla bolla pontificia di Paolo IV intitolata Cum nimis absurdum (cioè "poiché è oltremodo inconcepibile", riferito alla tolleranza verso gli ebrei), furono innalzati dei grandi portoni a chiudere fisicamente l'area di circa 3 ettari entro la quale avrebbero dovuto risiedere i circa 3000 membri della comunità ebraica.
l'area del ghetto, evidenziata in giallo, nella pianta di Roma di Antonio Tempesta (1593); sono ben visibili i portoni
di accesso e, davanti a quello principale in piazza Giudea (a sin.), la fontana a cui gli ebrei attingevano l'acqua
L'aspetto con cui il recinto degli Hebrei, com'era anche detto all'epoca, doveva presentarsi agli occhi di un'osservatore lo descrive in forma concisa ma efficace Giuseppe Berneri in un'ottava del suo poema dialettale Il Meo Patacca, della fine del Seicento (cfr. sezione La lingua e la poesia):

Il Ghetto, è un loco, al Tevere, vicino,
Da una parte, e dall'altra à Pescaria;
È un recinto di strade assai meschino,
Ch'è ombroso, e renne ancor malinconia.
Hà quattro gran portoni, e un portoncino;
Il dì s'apre, acciò el trafico ce sia,
Mà dalla sera inzino à giorno ciaro,
Lo tiè inserrato un sbirro portinaro.
Il Ghetto è un luogo prossimo al Tevere
Da un lato e al mercato del pesce dall'altro;
È un recinto di strade assai povero,
Perché è buio e mette anche malinconia.
Ha quattro grandi portoni e un portoncino;
Di giorno si apre, affinché si possa transitare,
Ma dalla sera fino a giorno fatto
Lo tiene chiuso una guardia che fa da portiere.

I residenti potevano lasciarlo solo durante il giorno; poi, dal tramonto all'alba successiva, i tre accessi al quartiere venivano serrati a mezzo di grosse porte, sorvegliate da guardie, la cui retribuzione era a carico della stessa comunità. In origine i portoni erano tre, ma pochi decenni dopo, quando papa Sisto V fece leggermente ampliare il ghetto dal lato del fiume, il loro numero crebbe a cinque.
La popolazione ebraica, però, continuava a crescere rapidamente, anche perché gli ebrei di altre città dello Stato Pontificio venivano costretti ad emigrare a Roma: nella seconda metà del XVII secolo gli abitanti del ghetto erano divenuti circa 9000 e il recinto dovette essere leggermente allargato. Un ulteriore allargamento venne concesso solo nel 1825 da papa Leone XII, dopo aver ricevuto un finanziamento dai banchieri ebrei Rotschild; in questa occasione fu aperta una sesta porta, in via della Reginella.
Oggi non esistono più i varchi né i portoni, che però si identificano molto chiaramente nelle antiche piante della città (cfr. immagine precedente). Chiunque si fosse attardato e fosse rimasto fuori oltre l'orario consentito avrebbe fatto i conti con l'implacabile giustizia papalina.


vecchie case in via di Sant'Ambrogio: dal 1825
questo isolato fu parte del confine del Ghetto
Inizialmente l'unica risorsa di acqua potabile per la comunità era rappresentata da una bella fontana di Giacomo Della Porta (cfr. la monografia Fontane), situata nella metà settentrionale di piazza Giudea, di fronte al portone principale del ghetto, quindi al di fuori dei confini: le condizioni igieniche all'interno del recinto dovevano essere spaventose. Solo molti anni dopo l'enclave fu raggiunta dall'acqua corrente grazie ad una piccola fontana a muro in piazza delle Scuole e altre due fontanelle semplicissime in piazza delle Tre Cannelle (così detta proprio dalla fontana) e in vicolo de' Savelli. Inoltre, essendo questo uno dei punti altimetricamente più bassi di Roma, un'altra costante minaccia era il rischio di finire sommersi durante i frequenti straripamenti del Tevere.

Fuori del ghetto i membri della comunità dovevano indossare un segno di riconoscimento per distinguersi dai cristiani.
Si trattava di un pezzo di stoffa o un velo di colore azzurrino (glaucus nella bolla del 1555), che veniva detto sciamanno; gli uomini lo fissavano al cappello, mentre le donne lo portavano a mo' di scialle. Tale voce è rimasta in uso nel dialetto locale per definire un capo di abbigliamento sciatto o logoro.

Agli ebrei non era permesso possedere beni immobili; le case dove abitavano venivano prese in affitto da proprietari non ebrei, che le affittavano ai membri della comunità a prezzi calmierati da una legge emanata sotto papa Pio IV (1561) e chiamata Ius Gazzagà (nome per metà latino e per metà ebraico, da חֲזָקָה chazakah, "possesso", corrotto secondo la pronuncia romana). Prevedeva che l'affitto, una volta stabilito, rimanesse bloccato in perpetuo e che il contratto di locazione passasse in eredità ai discendenti del primo locatario, per cui molti appartamenti venivano occupati dalle stesse famiglie per generazioni e generazioni, a prezzi che col tempo divennero irrisori.

via della Reginella, dove sorgeva la sesta porta del ghetto
Tuttavia l'affollamento all'interno dell'enclave era tale che di tanto in tanto si rendeva necessario ampliare le case, costruendo altane; il risultato era un conglomerato di tuguri, strettamente addossati gli uni agli altri, e frequentemente comunicanti con passaggi interni ed anche esterni, i cosiddetti passetti (che prendevano il nome da quello famoso di Borgo). In tempi di persecuzione costituivano una via di fuga per gli abitanti.

Leggi speciali, che assai spesso cambiavano col succedersi dei vari papi, limitavano le attività che i membri della comunità potevano ufficialmente svolgere. Tra i lavori a cui erano maggiormente dediti i membri della comunità c'era quello dello stracciarolo, cioè lo straccivendolo che batteva le strade con un carretto al grido di aèo! e in giudaico-romanesco era detto peromante, cioè colui che andava in giro per Roma. Le donne ebree erano particolarmente abili nel cucito, per cui quella della rammendatrice era un'altra frequente occupazione. E tra i mestieri tipici c'era anche quello del falegname: degli ebanisti ebrei, di cui era nota l'abilità, si servivano anche famiglie nobili.

il Tempietto del Carmelo, dove si tenevano le "prediche coatte";
sullo sfondo è il balcone di Palazzo Costaguti (XVI secolo)
Ciò non toglie che vi fossero nella comunità anche esponenti più benestanti, dediti ad attività quali l'affitto degli abiti eleganti da cerimonia a chi non se ne poteva permettere l'acquisto, ed anche il prestito di denaro, verso i quali tuttavia restavano in vigore gli stessi provvedimenti restrittivi di cui sopra, validi per qualsiasi ebreo.

Nel 1572 Gregorio XIII decretò che il sabato i membri adulti della comunità fossero costretti ad assistere alle cosiddette prediche coatte, il cui scopo era di convincere gli ebrei a convertirsi al cristianesimo; questi sermoni si tenevano nella piccola chiesa di San Gregorio, detta perciò anche San Gregoretto (ora dirimpetto alla grande sinagoga eretta nel 1904) e presso il minuscolo Tempietto del Carmelo di via Santa Maria in Publicolis. Si dice che in molti usassero tapparsi le orecchie con la cera per non dover ascoltare le odiate prediche; ma coloro che finivano con l'addormentarsi venivano risvegliati a calci dalle guardie papaline che sorvegliavano lo svolgimento della funzione.

Sulla facciata della chiesa di San Gregorio si legge ancora oggi un'eloquente iscrizione bilingue in latino ed ebraico, riferita ad un passaggio del profeta Isaia: « Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro capricci, un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine ». L'iscrizione vi fu collocata nel 1858.

Solo all'interno del ghetto agli ebrei era consentito professare la propria religione: un unico edificio dell'enclave ospitava cinque scuole (che fungevano anche da luogo di preghiera), una per ciascuna confessione ebraica a cui apparteneva la popolazione locale. Ciò perché era vietata la costruzione di più di una sinagoga.

Oltre alle discriminazioni, gli abitanti del ghetto dovevano sottostare a diverse tradizioni e rituali umilianti. Per esempio, durante le feste del Carnevale Romano, un certo numero di ebrei anziani veniva fatto correre lungo l'arteria centrale della città, mentre la folla li beffeggiava e lanciava ogni sorta di rifiuti; questa tradizione fu poi trasformata nella corsa dei cavalli barberi.

Roma non era l'unica città dove in quegli anni le comunità ebraiche erano sottoposte a discriminazioni: leggi simili a queste furono promulgate anche altrove in Italia (Venezia, Bologna, Ferrara, ecc.); già nel medioevo erano state attuate campagne di espulsione in paesi quali la Spagna, la Francia, l'Inghilterra. Infatti sembra che lo stesso vocabolo ghetto derivi da quello veneziano, il primo mai istituito (1511), che trovandosi nei pressi di una fonderia fu chiamato campo gheto (da getto, cioè scarto della produzione di metalli).

vicolo Costaguti, quasi una galleria,
mette in collegamento un cortile interno

Dopo la bolla di Paolo IV altre ne seguirono: Pio V ne emise una nel 1569 con cui espulse gli ebrei da tutti i territori dello Stato Pontificio, fatta eccezione per i ghetti di Roma e Ancona, disposizione poi ribadita da Clemente VIII nel 1593.
Però non tutti i papi mostrarono la stessa durezza nei confronti degli ebrei. Ad esempio, Pio IV (1559-65) si mostrò più tollerante, Gregorio XIII (1572-85) assunse una posizione intermedia, mentre Sisto V (1585-90), uno dei pontefici più severi della storia ("er papa tosto"), ebbe curiosamente un atteggiamento protettivo verso la comunità ebraica, seppure col persistere delle restrizioni dei diritti civili. In pratica, all'elezione di ogni nuovo papa l'atteggiamento della Chiesa di Roma verso gli ebrei poteva mutare in modo sostanziale, passando dalla tolleranza alla persecuzione o viceversa.
Viene di seguito riportato il testo integrale di un bando emanato in data 15 gennaio 1595 e firmato dal vescovo e governatore generale di Roma Annibale Rucellai, che proibiva qualsiasi maltrattamento agli esponenti della comunità:

BANDO
Che non si debbano molestare, né dar fastidio alli Hebrei.

Volendosi provedere alli scandali, & inconvenienti che sogliono nascere dalle molestie, e beffe, che s'intende darsi giornalmente à gli Hebrei. Per questo Il molto Ill.o, & Rever.mo Mons. Anibale Ruccellai, Vescovo di Carcassone, & dell'Alma Città di Roma, & suo distretto General Governatore, & Vicecamerlengo, per ordine espresso de la Santità di N.S. per il presente Bando ordina, prohibisce, & commanda, che nessuna persona, di qualsivoglia stato, grado, conditione, & preminentia, ardisca, ne presuma in modo alcuno diretto, o indiretto, dar fastidio o impedimento di nessuna sorte ad alcun'hebreo, maschio, o femina, putti, o putte, ne schernirli, toccarli, o offenderli in qual si sia modo, in parole, o fatti di giorno, ne di notte, occultamente, ne palesemente, sotto pena à gl'huomini Christiani di tre tratti di corda, & alle donne, e putti della frusta, & di più alla pena, alle quali sarebbono tenuti, se havessero offeso un Christiano, dichiarando, che li padroni di casa saranno tenuti per li loro servitori, li padri per li figliuoli, e maestri per li discepoli, & se ne farà essecutione rigorosa, reserbandosi esso Mons. Reverendiss. Governatore l'arbitrio d'aumentar e minuir le pene secondo la qualità del fatto, e delle persone, & ognuno si guardi di non contravenire.

(cliccare sull'immagine
per ingrandirla)

Per quanto possa apparire un bando severo, l'ultima riga ci informa che i ricchi e i nobili avrebbero potuto facilmente evitare di essere sanzionati.
Quando nel 1798 Roma cadde sotto l'assedio delle truppe napoleoniche, l'amministrazione francese aprì il ghetto.

il lato nord di via del Portico d'Ottavia (l'antica via di Pescaria)
è ancora formata da una fila di case dei secoli XV-XVI: il confine del
ghetto attraversava gli edifici scomparsi che sorgevano sul lato opposto
Ma poi nel 1814 fu restaurata l'autorità papale e Pio VII sancì nuovamente la chiusura notturna delle porte del recinto. L'unica concessione fatta dal successivo papa Leone XII, poco dopo il 1830, fu di decretare un'ulteriore espansione del confine del ghetto, comprendendovi via di Sant'Ambrogio e via della Reginella (nell'illustrazione d'apertura si trovano nell'angolo in alto a sinistra ); a quest'ultima strada si provvide ad applicare un sesto portone. Ma il fanatico pontefice inasprì ancora di più le restrizioni per la comunità ebraica, vietando ai suoi membri qualsiasi diritto al possesso privato e costringendoli a disfarsi dei propri beni materiali nel più breve tempo possibile. Per questo molti di loro dovettero abbandonare Roma.
Il ghetto fu brevemente riaperto durante i cinque mesi della Repubblica Romana (febbraio - luglio 1849); in questa occasione furono rimossi i portoni dell'enclave. Ma Pio IX, una volta tornato, costrinse la comunità a rientrare nel ghetto, anche se ormai non era più fisicamente un luogo chiuso.
I cancelli virtuali dell'odioso recinto caddero definitivamente solo dopo la fine dello Stato Pontificio (1870), quando la nuova amministrazione italiana concesse agli ebrei romani la libertà di lasciare quest'area e riconobbe a tutti i cittadini pari dignità, a prescindere dal credo religioso.

Nonostante quanto fin qui esposto, le condizioni degli ebrei a Roma non erano peggiori di quanto fossero in altre città italiane ed europee, anzi al contrario. Il poeta Crescenzo Del Monte, che nel ghetto vi era nato poco prima che venisse aperto, così scrive in una nota dei suoi sonetti in giudaico-romanesco: "È vero che gli Ebrei sotto il regime dei papi, a parte il disagio morale e tranne qualche breve periodo di persecuzione o qualche atto isolato di fanatismo, erano abbastanza bene o non troppo mal trattati in confronto di altri paesi."


frammento di età romana
su una casa del XV secolo
Verso la fine della II Guerra Mondiale però la storia tornò ad esigere dal ghetto un pesantissimo tributo, durante l'occupazione di Roma da parte delle milizie naziste. Tra gli episodi più tragici di quei giorni si ricorda infatti il rastrellamento di 1022 esponenti della comunità ebraica, poi deportati ad Auschwitz, gran parte dei quali non fecero ritorno. Era il 16 ottobre 1943.


Oggi molti membri della comunità vivono in altri quartieri di Roma, sebbene tutti considerino ancora il ghetto come un luogo comune di incontro in occasioni speciali e festività religiose.


via di Sant'Ambrogio

la sinagoga
Qualche ristorante in zona mantiene viva la cucina giudaico-romanesca, una tradizione vecchia di secoli che fonde tipici piatti ebraici con ricette romane, fra cui i famosi carciofi fritti alla giudìa. Invece i cosiddetti "fagottari", clienti che usavano portare il proprio pasto in un fagotto, per cui ordinavano solo il vino, non si incontrano più; questa abitudine è ormai scomparsa.

Nel ghetto anche la lingua subiva l'influenza della cultura di origine degli abitanti. Il dialetto giudaico-romanesco, che una volta era diffuso tra i membri della comunità, non era troppo dissimile da quello "classico" parlato altrove a Roma, ma faceva uso di molti vocaboli diversi, di chiara origine ebraica.

androne di un palazzo del XVI secolo
Oggi nei vicoli del ghetto questo dialetto si ascolta sempre più di rado, avendolo ormai quasi completamente sostituito l'italiano. Va segnalato un lodevole tentativo di mantenerne viva la memoria da parte di un ristretto numero di studiosi, per mezzo di iniziative culturali quali letture in pubblico e opere teatrali. Alla fine del 2006 è stata anche data alle stampe una riedizione lungamente attesa dei sonetti di Crescenzo Del Monte (1868-1935), citato in precedenza, l'unico poeta dialettale giudaico-romanesco.

A partire dal 1888, a pochi anni di distanza dalla riapertura del ghetto, tutte le vecchie case furono rase al suolo, in parte perché erano in pessime condizioni, ma in parte anche per seguire la politica urbanistica di quell'epoca, che mirava ad ampliare le strade per motivi di viabilità legata al crescente traffico dei veicoli, anche a costo di commettere dei veri e propri scempi architettonici. Perfino la fontana di piazza Giudea fu rimossa (la piazza stessa scomparve), per poi essere ricollocata presso il vicino Palazzo Cenci. La topografia del luogo, quindi, appare oggi del tutto stravolta, ma rimane ancora pressoché intatta via della Reginella e i vicoli adiacenti, che conservano ancora un'atmosfera magica, una miscela unica di storia, architettura e tradizione.
una foto del 1912 mostra l'area del ghetto completamente rasa al suolo;
in primo piano è la fontana della ex piazza Giudea, non ancora
trasferita; la sinagoga, sullo sfondo, era stata aperta l'anno prima


Nel corso dei lavori per il Giubileo dell'anno 2000, da un'area compresa tra il retro della chiesa di San Gregorio e quello della vicina chiesa di San Nicola in Carcere, sono emersi dei resti che hanno permesso di riscoprire il ghettarello (o il macelletto). Era una piccola estensione del ghetto dove risiedevano i membri più indigenti della comunità.
Si stima che qui abitassero circa 180 famiglie, per lo più ebree, ma alcune anche di cristiani. Era costituita da un cortile circondato da fabbricati, a cui si accedeva da una piazzetta antistante a Monte Savello, dove sorgeva Palazzo Savelli poi divenuto Palazzo Orsini, percorrendo la stretta via o vicolo di Porta Leone.
Il luogo comprendeva stalle, un magazzino per il grano, un forno per la cottura del pane azzimo, di cui è documentata l'attività già dal XV secolo; in più vi si trovavano due bagni rituali, e una sesta scola, oltre alle cinque già citate, detta Portaleone (o "Quattro Capi"). Quest'ultima fu chiusa al momento dell'istituzione del ghetto; riaprì saltuariamente, a singhiozzo, nei due secoli successivi.
L'accesso al ghettarello era chiuso da un cancello soggetto agli stessi orari di apertura del ghetto principale (dall'alba al tramonto). Divenuto oggetto di un contenzioso tra Stato Pontificio e i residenti, dai quali non veniva riscossa alcuna tassa, un primo tentativo di chiusura si ebbe nel 1620, ma fu scongiurato dal pagamento di una somma di mille scudi. Tuttavia nel 1731 la Congregazione del Sant'Uffizio decretò l'esproprio del ghettarello, che fu definitivamente abbandonato nel 1735.
Col passare del tempo le costruzioni furono demolite, e il poco o pochissimo di ciò che ne restava scomparve, interrato, venendo riscoperto solo nel 1999. Le poche tracce visibili sono una colonna, alcuni abbeveratoi per gli animali, i resti di un forno.