~ la lingua e la poesia ~
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introduzione al
DIALETTO ROMANO




IN QUESTA PAGINA
  • 11 - note generali di sintassi
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    ultimo aggiornamento
    giugno 2014




    11. NOTE GENERALI DI SINTASSI

    Benché la sintassi del dialetto romano ricalchi ampiamente quella italiana, esistono delle forme più o meno tipiche, tutt'ora in uso anche nel dialetto parlato.



      1. - ESSERE E STARE

      Il romanesco non fa quasi mai uso di essere, esserci o esservi per indicare lo stato in luogo (è a casa; siete in strada; c'è una novità ecc.), preferendogli stare e stacce (cioè starci, starvi):

      sono qui!
      a quest'ora siamo a letto
      prima c'era un ragazzo
      c'è niente per me?
      ci sono due lettere

      sto cqui!
      a st'ora stamo a lletto
      prima sce stava u' regazzo
      sce sta ggnente pe mme?
      sce stanno du' lettere


      2. - USO DI AVERCI  (CI ATTUALIZZANTE)

      Quando il verbo avere esprime possesso, gli viene di norma abbinato il pronome ci (opportunamente romanizzato in ce), anche noto come "ci attualizzante", molto comune anche in italiano, nei registri più informali. In romanesco l'infinito è quindi avécce. Si noti che in questo caso ce non si pronuncia sce, in quanto unendosi alla forma apocopata avè la C raddoppia, e quindi il suono rimane palatale (pagina 2:

      io ho
      tu hai
      egli/ella ha
      noi abbiamo
      voi avete
      essi/esse hanno

      io ciòcontrazione di ce ho
      tu cciai
      lui/lei cià
      noi ciavemo
      voi ciavete
      loro cianno

      Gli autori successivi a Belli a volte marcano graficamente l'accento, scrivendo tu cciài (o tu ciài), noi ciavémo, voi ciavéte, loro ciànno.
      Altri autori, come Pascarella, preferiscono separare ci dal verbo, scrivendo tu ci hai, noi ci avemo, loro ci hanno.

      In ossequio alla consueta pronuncia del trigramma cia..., Belli talora aggiunge anche una S (cfr. LA PRONUNCIA DI "CE" E "CI"), anche se più spesso la omette; questo permette anche di distinguere ciò verbale ("io ho") da ciò pronome dimostrativo:


      io ho
      tu hai
      egli/ella ha
      noi abbiamo
      voi avete
      essi/esse hanno

      io sciò
      tu cciai o tu ciài
      lui/lei scià
      noi sciavemo
      voi sciavete
      loro scianno


      DIALETTO MODERNO
      In romanesco moderno l'uso di ci davanti ad avere viene comunemente reso elidendo la vocale del pronome e mantenendo il verbo nella sua forma originale. Anche alcuni autori adottano tale grafia, ad esempio Pier Paolo Pasolini e Bartolomeo Rossetti (si veda la prima pagina):

      io ho
      tu hai
      egli/ella ha
      noi abbiamo
      voi avete
      essi/esse hanno

      io c'ho
      tu c'hai
      lui/lei c'ha
      noi c'avemo
      voi c'avete
      loro c'hanno

      Tale forma, però, viene criticata da linguisti e dialettologi, perché una C non seguita da I o da E non può mai avere la pronuncia palatale; quindi secondo la fonologia italiana (su cui si basa quella di qualsiasi dialetto) io c'ho si dovrebbe leggere io co, noi c'avemo come noi cavemo, e così via.
      Inoltre Belli usa le stesse forme c'ho, c'hai, ecc. per esprimere la contrazione rispettivamente di che ho, che hai, ecc. (foneticamente corretta). Quindi è doppiamente sconsigliabile elidere il ci attualizzante, perché per il lettore che non ha confidenza col dialetto l'interpretazione potrebbe essere ambigua.



      3. - PLURALE DEI SOSTANTIVI FEMMINILI DI SECONDA CLASSE

      I sostantivi femminili che al singolare escono in "e" (ad esempio ragione, voce, prigione, ecc.) in romanesco mantengono la stessa desinenza anche al plurale:

      una voce, due voci
      le sue ragioni
      le luci

      una vosce, du' vosce
      le su' raggione
      le lusce



      4. - USO DI CHE

      I - USO DI CHE CON CONGIUNZIONI E AVVERBI

      Le congiunzioni quando e mentre, e l'avverbio dove, in dialetto vengono spesso rafforzate facendole seguire dalla congiunzione che, puramente enfatica (si tengano anche presenti le modificazioni di dove, già descritte nel paragrafo ELISIONI, AFERESI E SINCOPI):

      dove si sta comodi
      quando c'è la luna piena
      mentre ero lì

      indove che sse sta ccommodi
      quanno che cc'è la luna piena
      mentre che stavo lì


      II - USO DI CHE PER INTRODURRE FRASI INTERROGATIVE

      In dialetto è comunissimo introdurre una frase interrogativa con la congiunzione "che", la quale assume un valore puramente enfatico. Per chi parla, lo scopo del che è di raggiungere più facilmente la giusta intonazione della voce con cui si esprime l'interrogazione, mentre per chi ascolta funge come un segnale del fatto che ciò che segue è una domanda (un po' come il punto interrogativo rovesciato della lingua spagnola scritta):

      sai dov'è questo posto?
      viene il suo amico?
      ce n'è ancora?
      è lontana la fermata del tram?

      che ssai indove sta 'sto posto?
      che vviene l'amico suo?
      che cce ne sta ancora?
      che è llontana la fermata der tranve?

      Quando la frase è introdotta dall'esclamazione enfatica ahó, più confidenziale, già discussa a proposito del VOCATIVO, che può essere omesso oppure usato ugualmente.

      hai un cerino?



      che cciài un cerino?
      ahó, ciài un cerino?
      ahó, che cciài un cerino?

      Se invece la domanda si apre già con un avverbio interrogativo (perché, come, quando, dove, ecc.), il che enfatico viene omesso:

      perché non scendi?
      come si dice?
      dove stai andando?
      quanto guadagna?

      perché nnu' sscendi?
      come se disce?
      indove stai a annà?(cfr. sotto, a proposito del gerundio)
      quanto gguadammia?



      5. - FORME USATE COME GERUNDIO

      Come gìà accennato nel paragrafo sui verbi, in dialetto il gerundio viene spesso reso con altre forme.

      • Il gerundio semplice facendo, se esprime la contemporaneità di una seconda azione, diventa mentre che ffò o anche mentre che sto a ffà (se l'azione si svolge nel passato, con l'imperfetto: mentre che ffacevo ecc.). Il che in queste forme è puramente enfatico e può essere omesso (anche se di solito viene usato).

      • La perifrasi progressiva sto facendo diventa sto a ffà.

      • Se il gerundio ha valore causale, cioè poiché faccio, poiché sto facendo, si usa la forma siccome che ffò oppure siccome che sto a ffà (anche in questo caso che è enfatico).

      sono caduto salendo le scale
      mi sta venendo fame
      stava ancora piovendo
      dolendogli il piede, è rimasto a casa
      piacendomi i dolci, li mangio spesso

      sò ccascato mentre che ssalivo le scale
      me sta a vvenì ffame
      stava ancora a ppiove
      siccome che jje doleva er piede, è rrestato a ccasa
      siccome che mme piàceno li dorci, li maggno spesso

      Ove invece il gerundio rimanga tale, le sue desinenze -ando ed -endo in dialetto diventano -anno ed -enno (cfr. SOSTITUZIONI DI LETTERE).

      lo va dicendo a tutti
      trovandomi a casa
      vedendoli lì dentro

      lo va discenno a ttutti
      trovannome a ccasa
      vedennoli llì ddrento



      6. - USO DI DICO E DICE NEL DISCORSO DIRETTO

      Nel dialetto romano parlato si fa grande uso del discorso diretto, sempre introdotto da dico, che introduce una frase pronunciata da chi sta parlando, e dice (ovviamente disce), che introduce una frase pronunciata da altri. Si tratta di vere e proprie interiezioni: infatti non vengono inserite solo all'inizio della frase riportata, come ad introdurre un virgolettato, ma ripetute numerose volte nell'ambito del discorso, anche quando per comprendere il testo che segue non ve ne sarebbe assolutamente bisogno.
      Un esempio:
      Dico: - A cch'ora parte 'sto treno? - dico - Ché cciò ancora da fà er bijjetto, - dico - sinnò ffò ttardi. -
      Quello me fa, ddisce: - Nu' lo so, - ddisce - perché si nun pijja ritardo - disce - pò ppartì in quarziasi momento. -
      Come si vede, in uno stesso periodo l'interiezione dico o dice può essere ripetuta tre, quattro, o anche più volte, addirittura dopo mi fa (cioè mi dice).
      Ovviamente, la "d" iniziale raddoppia o meno a seconda delle regole generali già discusse in IL RADDOPPIO DI CONSONANTI.
      Si noti che queste forme si pronunciano spesso con un leggero prolungamento dell'ultima vocale (dicooo..., disceee...), come a sospendere impercettibilmente la narrazione prima di riportare il vero e proprio discorso diretto, creando cioè delle brevissime pause ad effetto che catturano meglio l'attenzione di chi ascolta.




      7. - USO DI 

      Per dire adesso, ora, in questo momento, il romano usa l'espressione (pronunciato con la "o" stretta), che sostituisce a pieno titolo gli avverbi anzidetti, sebbene anche adesso sia frequente.
      Belli ne usa anche la forma enfatica mommó.

      ora me ne vado
      è arrivato proprio adesso
      adesso ce ne andiamo
      in questo momento sta piovendo
      il negozio ha aperto proprio adesso

      mó mme ne vado
      è arivato propio mó  
      oppure  mommó
      mó se n'annamo
      mó sta a ppiove
      er negozzio ha aperto propio mó  
      oppure  mommó

      può anche prendere il significato di "oggigiorno", come del resto avviene anche in italiano colloquiale:

      ora (oggigiorno) non si può più
      adesso (oggi) girano tutti in automobile

      mó nun ze pò ppiù
      mó ggireno tutti in machina

      Quando cade alla fine della frase, di solito si allunga (per epitesi) in mone.

      voglio andare, ma non ora
      è durato fino ad ora
      - quando sei tornato? - - ora! -

      vojjo annà, ma nno mmone
      è ddurato inzin'a mmone
      - quanno sei tornato? - - mone! -




      8. - SÌNE E NÒNE

      La stessa epitesi, cioè l'aggiunta di una sillaba finale (sempre -ne), interessa spesso i comuni avverbi affermativo e negativo e no che, se usati da soli o come ultimo vocabolo della frase diventano sìne e none.

      - sei sicuro di averli visti? - - ho detto di sì! -
      - non ti ha detto niente? - - no! -

      - sei sicuro che ll'hai veduti? - - t'ho ddetto de sìne! -
      - nun t'ha ddetto ggnente? - - nòne! -

      Alcuni autori dell'Ottocento usavano la stessa epitesi anche con verbi che all'infinito terminano tronchi: (fare) diventava fàne, dormì (dormire) diventava dormìne, e qualche volta persino è diventava ène. Anche i pronomi personali me e te potevano diventare mene e tene. Tale uso, però, si è perso del tutto nel corso del Novecento.




      9. - INDOV'ELLO

      Le espressioni dov'è? e dove sono? (non seguite dal sostantivo a cui si riferisce il verbo essere) diventano indov'ello?, indov'ella?, indov'elli?, indov'elle?, a seconda del genere e del numero.
      Nel dialetto moderno, come già detto in ELISIONI, AFERESI E SINCOPI, indove può subire un'aferesi e in tal caso rimane 'ndovello.

      ma dov'è?
      - passami le tenaglie - - dove sono? -

      ma indov'ello in dialetto moderno: ma 'ndov'ello?
      - passeme le tenajje - - indov'elle? - moderno: 'ndov'elle?



      10. - USO DI SENTIRE ED INTENDERE

      In dialetto il verbo udire è pressoché sconosciuto, così come pure ascoltare; al loro posto viene usato sentire, che oltre al normale significato di provare una sensazione (ad esempio sentire caldo o freddo) esprime quindi più specificamente anche qualsiasi percezione acustica.

      ho udito un colpo e mi sono affacciato
      ascolta cosa ti dice mamma
      quando è venuto stavo ascoltando la radio
      riesci ad udirlo bene da laggiù?

      ho ssentito un bòtto e mme sò affacciato
      senti che tte dice mamma
      quann'è vvenuto stavo a ssentì la radio
      riesci a sentìllo bbene da laggiù?

      A volte anche in italiano colloquiale si usa sentire col significato di udire, ad esempio: da questo orecchio non sento bene. In alcuni di questi casi (ma non in tutti) il romanesco può rimpiazzare sentire col verbo intendere. Inoltre - cosa bizzarra - di tale verbo viene usato solo il passato remoto e il participio passato (inteso, intesa), quindi con tempi semplici (presente, imperfetto, futuro) si continua a usare sentire:

      hai sentito la novità?
      ho sentito dire che è una brava persona
      l'ho chiamata, ma non mi ha sentito


        ma...

      li senti questi rumori?
      quando ti parlavo tu non mi sentivi

      hai inteso la novità?
      ho inteso dì cch'è 'na bbrava perzona
      l'ho cchiamata, ma nu' mm'ha inteso



      li senti 'sti rumori?
      quanno te parlavo nu' mme sentivi

      Inoltre, il romanesco usa intendere al posto di sentire anche in un altro caso molto specifico: nell'espressione sentirsi male o sentirsi poco bene:

      stamattina mi sono sentito male
      si sentì male e andò a casa


        ma...

      ti senti poco bene?
      si sentiva male

      stammatina me sò inteso male
      s'intese male e aggnede a ccasa



      te senti poco bbene?
      se sentiva male


      11. - IL PRONOME RIFLESSIVO CI

      Quando il pronome ci è riferito alla prima persona plurale, con valore riflessivo (ci spostiamo), o anche semplicemente enfatico (ci beviamo una birra), il dialetto al suo posto usa si, che romanizzato diventa se. Solo con l'infinito dei verbi, ci rimane tale, romanizzato in -cce (con la "c" doppia). Questa trasformazione rende le forme verbali identiche a quelle che si legano alla particella riflessiva -si: ad esempio, lavasse traduce sia l'italiano lavarci che lavarsi.
      Tuttavia è ancora possibile usare la particella ci, romanizzata in ce; ciò avviene da parte di coloro che parlano un dialetto meno stretto, più italianizzato. La sua pronuncia, però, deve sempre essere con la "c" molto strisciata (tranne quando raddoppia legandosi all'infinito, cfr. VERBI);
      Belli usa quasi sempre la prima delle due forme, di rado la seconda.

      vederci
      ci vediamo alle tre

      farci
      ci facciamo un giro?

      mangiarci
      mangiamoci un panino

      vedecce
      se vedemo a le treo più italianizzatosce vedemo a le tre

      facce
      se famo un giro?o più italianizzatosce famo un giro?

      maggnacce
      maggnameseomaggnamose 'na paggnottellao più italianizzatomaggnamosce





      (il resto del paragrafo è ancora in fase di sviluppo)



      In conlusione, vale la pena ricordare come alcune fra le voci dialettali più esilaranti sono quelli che derivano da convinzioni errate del popolino circa l'origine o il significato dei singoli vocaboli.
      Qualche classico esempio.
      Il volgo romano diceva moseo anziché museo, perché era convinto che derivasse da Mosè (non certo da musa, di cui ignorava il significato). E chiamava il più noto anfiteatro di Roma Culiseo perchè, come ci spiega Belli,...

      Sti cosi tonni com'er culo, a Roma,
      Se sò ssempre chiamati Culisei.
      Questi affari tondi come il culo, a Roma,
      Si sono sempre chiamati Culisei.

        da Li battesimi de l'anticaje, 22 giugno 1834

      E a Roma la zanzara si è sempre chiamata zampana; il perché di questo nome lo si evince da un altro sonetto di Belli:

      Bbe', sse dirà zzanzare pe le stampe;
      Ma ssò zzampane: eppoi, santa Luscia!,
      1
      Nun je le vedi llì ttante de zzampe?
      Beh, si dirà "zanzare" nei testi stampati;
      Ma sono "zampane": e poi, santa Lucia!,
      Non vedi lì che hanno tanto di zampe?

        da Le zzampane, 2 aprile 1846

        1. - santa invocata dal popolo per chi ha problemi di vista



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