~ la lingua e la poesia ~ - 5 -
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salta l'introduzione
Giuseppe Gioachino Belli (per esteso: Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli) è reputato unanimemente il poeta dialettale romano più tradizionale ed influente, quello il cui stile linguistico viene riconosciuto essere il più verace e pienamente maturo, sebbene scrivesse versi anche in italiano.
Tra il 1828 e il 1846 compose oltre 2.200 sonetti, ognuno dei quali è una fedele immagine della città ai primi dell'Ottocento, vista attraverso gli occhi della gente del popolo.
La sua introduzione alla raccolta di sonetti non lascia dubbi sui suoi intenti letterari: « Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma....».
Egli era in netto contrasto con la struttura sociale del suo tempo. Roma era governata dal pontefice, il Papa Re, proprio come avrebbe fatto un monarca. Un ristretto numero di aristocratici e l'arrogante clero costituivano le classi sociali più alte, il cui potere aveva ormai perso qualsiasi giustificazione storica o morale. All'estremo opposto della scala sociale si contrapponeva loro il popolino, fanatico e superstizioso, i cui unici diversivi erano le molte manifestazioni di piazza, indette per celebrare e glorificare i potenti, ma anche le altrettanto numerose pubbliche esecuzioni (tanto che uno dei carnefici divenne addirittura un personaggio famoso, cfr. Curiosità romane, pagina 9). Secondo il pensiero di Belli, « I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n'ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie.» |
Tale atteggiamento un po' snob ed altezzoso verso la società e il pessimismo nei confronti della vita umana, in cui la sua graffiante satira affonda le radici, trovano in buona parte giustificazione nella sua lunga ed a tratti travagliata vita, durante la quale sopravvisse ad entrambi i fratelli minori e a una sorella, poi alla moglie, a una figlia, a una nuora e persino ad alcuni nipoti.
Palazzo Poli |
Essendo rimasto orfano in giovane età, attorno ai sedici anni smise di ricevere un'educazione scolastica, ma proseguì comunque i suoi studi come autodidatta. Dopo aver vissuto per un breve tempo con una coppia di zii, dai quali fu trattato con una certa durezza, ottenne il primo impiego da contabile, ma in seguito fu anche insegnante privato e impiegato statale, cambiando residenza svariate volte. Risalgono a questo periodo alcune sue composizioni minori in versi. Nel contempo, ancora molto giovane, Belli entrò in contatto col mondo accademico letterario e nel 1812 fu tra i cofondatori dell'Accademia Tiberina; è durante questi anni che cominciò a firmare le sue opere col doppio nome Giuseppe Gioachino. Nel 1816, all'età di 25 anni, sposò una ricca vedova appartenente alla famiglia nobile dei Conti, stabilendosi con lei in Palazzo Poli (quello sul cui lato, mezzo secolo prima, era stata realizzata la Fontana di Trevi). Negli anni successivi visitò diverse città italiane, tra cui Milano, dove giunse per la prima volta nel 1827. Lì entrò in contatto con la poesia dialettale milanese di Carlo Porta; fu questa scoperta che probabilmente lo indusse a sviluppare il progetto di scrivere anch'egli i propri versi in dialetto. |
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Belli ebbe anche contatti con lo scrittore e drammaturgo russo Nikolai Gogol', che conobbe già durante il primo soggiorno a Roma di quest'ultimo (1837-1839) e a cui lesse alcuni dei suoi versi. Lo stato della sua salute, però, non era molto buono, come non lo era neppure quello delle sue finanze, avendo lasciato il posto da impiegato nel 1826 e non avendo più lavorato fino al 1841. Soffriva di una serie di acciacchi, tra cui un esaurimento nervoso che lo colpì dopo la morte della moglie; coperto di debiti, dovette vendere i mobili di casa e cambiare radicalmente stile di vita. |
Negli anni della maturità Belli fu anche profondamente colpito dai cambiamenti che avevano luogo nella società di Roma. Quando nel 1849, sotto la pressione dei moti popolari, Pio IX fuggì a Gaeta e, seppure per brevissimo tempo, venne proclamata la Repubblica Romana, il poeta aveva già da tempo abbandonato la posizione critica verso il papato: «...ormai sembrami d'essere divenuto in Roma un forastiere, o di non abitare più in Roma, tanto mi si è rinnovato il popolo attorno » (1850). |
francobolli emessi per il bicentenario della nascita di Belli (in basso a sin.) e il centenario (in alto) e 150° (in basso a destra) dalla sua morte |
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Composti in larga parte prima della svolta conservatrice, i suoi versi denunciano l'inconsistenza della decadente società del suo tempo. Ma quando tale condizione pluricentenaria cominciò finalmente ad incrinarsi, le idee di Belli non erano più quelle di prima!
il monumento edificato coi fondi raccolti per pubblica sottoscrizione, con la seguente dedica:
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Nei suoi sonetti prendono vita vignette ricche di spirito popolare che, attraverso la lente di una satira graffiante, rivelano l'amaro e pessimistico atteggiamento di Belli nei confronti della vita e della condizione umana. Allo stesso tempo, i suoi versi e, ancor di più, le sue note a piè di pagina, sono fonte di un'enorme quantità di interessanti informazioni sulla vita quotidiana della Roma dei primi dell'800. Alcuni dei sonetti hanno per tema soggetti biblici; in essi i personaggi parlano, pensano e agiscono alla stregua di tipici esponenti del popolo romano. Non a caso, nonostante le sue opere in versi e i suoi saggi scritti in italiano, Belli viene ricordato esclusivamente per i Sonetti. È probabile che inizialmente il poeta avesse avuto in mente di pubblicare la sua raccolta di sonetti, perché per un certo tempo ne tenne il conto con cura, pur tuttavia senza numerarli. Il manoscritto riporta il titolo generico di Poesie Romanesche, ma si ritiene che in seguito potrebbe averlo cambiato con Il 996 (numero che in alcuni casi usava come una firma, somigliandone la forma alle sue iniziali "ggb"). Negli ultimi anni di vita però, in seguito alla svolta religiosa, il poeta rinnegò i suoi sonetti, dichiarandoli «...sparsi di massime, pensieri, parole riprovevoli...», rifiutando di riconoscere in essi i propri sentimenti. Morì nel 1866 per un improvviso colpo apoplettico; «...esiste una cassetta piena di miei manoscritti in versi. Si dovranno ardere!» fu trovato scritto nel suo testamento. Ma fortunatamente tale desiderio non fu mai esaudito. |
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L'editore Salvucci già dal 1839 aveva cominciato a pubblicare alcune raccolte di versi di Belli in italiano.
Fu solo dopo la morte dell'autore, tra il 1865 e il 1866, che ne diede alle stampe i primi sonetti in dialetto, curati dal figlio Ciro, tra l'altro alterandone il testo per superare il filtro della rigida censura dello Stato Pontificio.
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Molto del vigore dei sonetti beliani è dovuto all'uso del dialetto, crudo, schietto, a tratti quasi brutale; diversamente, un gioco di parole o un'espressione caratteristica non avrebbero la stessa efficacia, in italiano come in nessun'altra lingua. Per questo motivo la letteratura "ufficiale" non li ha mai tenuti in gran considerazione. Eppure il cospicuo corpus dei suoi versi rendono i Sonetti una delle opere più estese della poesia nazionale. Ne sono stati fatti anche tentativi di traduzione in più lingue, sempre giungendo a compromessi con l'inevitabile ostacolo linguistico.
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la casa natale di Giuseppe Gioachino Belli, a via dei Redentoristi 13 |
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LA LINGUABelli è colui che più di ogni altro predecessore si adoperò per trasporre in forma scritta i suoni del dialetto, sottolineando ogni loro deviazione dalla lingua ufficiale con una specifica grafia: « Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, (...) insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall'uso, ecco il mio scopo. »
Si riportano di seguito le principali variazioni fonetiche e le loro modalità di trascrizione nei versi di Belli.
- Alcune consonanti contenute nei vocaboli raddoppiano, particolarmente spesso la b, la z e il gruppo gi- (altre raddoppiano assai più di rado), ad esempio: libbertà, ribbellione, giudizzio, giustizzia, raggione, rifuggio, ecc.
- Anche in apertura di parola le consonanti (soprattutto la b) non di rado raddoppiano quando sono precedute da un suono di vocale, ad esempio: la bbellezza, Le Cchiese de Roma (titolo di un sonetto), e ppeggio, a ttutti, ecc.
- Il gruppo sc- seguito da e oppure da i, quando è raddoppiato viene reso con ssc-, ad esempio: pessce (per "pesce"), le scciabbole (per "le sciabole"), ecc.
- Il gruppo gn- quando è raddoppiato viene reso con ggn-, ad esempio: raggno, compaggnia, ecc.
- In apertura di parola il suono di qu- viene raddoppiato in cq-, ad esempio: co cquelli (per "con quelli"), tal'e cquale (per "tale e quale"), ecc.
- Quando qu- non è raddoppiato, invece, viene spesso reso graficamente con cu-, che rispecchia maggiormente il suono meno gutturale con cui i romani pronunciano questo fonema, ad esempio: Pascua, cuest'anno, ecc.
- Quando la particella enfatica ci precede voci del verbo avere in espressioni quali "ci ho", "ci hai", "ci hanno", ecc. viene sempre accorpata alla voce verbale: ciò, ciai, cianno, ecc.; non vi è alcun rischio di confusione col pronome dimostrativo ciò, che il romano non usa mai.
- Il suono di ce come pure quello di ci è estremamente strisciato, venendo reso rispettivamente con sce e sci, ad esempio: piascere (per "piacere"), scena (per "cena"), mediscina (per "medicina"), ecc.; anche in questo caso non vi è rischio di equivoci con vocaboli simili: ad esempio, pesce (per "pece") si distingue da pessce (per "pesce") grazie al raddoppio di consonante di quest'ultimo.
- La s seguita da vocale, quando preceduta da una consonante spesso inasprisce il suono in z (sempre pronunciata ts), ad esempio er ziggnore (per "il signore"), conzijjo (per "consiglio"), ecc.
- Il suono di gli è sempre reso con j e anche più spesso jj se soggetto a raddoppio di consonante, ad esempio: je disse (per "gli disse", ma anche "le disse"), imbrojjo (per "imbroglio"), mojje (per "moglie"), fijji (per "figli"), ecc.
- Lo stesso cambio avviene a volte anche per i gruppi -lia- o -lie- quando sono accentati, che il romano pronuncia -jja- e -jje-, ad esempio: itajjano (per "italiano"), cannejjere (per "candeliere"), ecc.
- Quando la lettera m è seguita dalla b, spesso quest'ultima si trasforma a sua volta in m e quindi si raddoppia, ad esempio: gamma (per "gamba"), novemmre (per "novembre"), ecc.
- La stessa trasformazione avviene a volte quando la l oppure la n precedono la d, ad esempio: callo (per "caldo"), cuanno (per "quando"), ecc.
- In alcuni vocaboli la o dal suono stretto si tramuta in u, ad esempio curre (per "correre"), Giuvanni (per "Giovanni"), ecc.
- Talora alcuni semidittonghi (consonanti consecutive ma appartenenti a sillabe differenti) vengono divisi inserendovi una v, ad esempio: pavura (per "paura"), Pavolo (per "Paolo"), ecc.
Belli era un perfezionista della grafia del dialetto di Roma, tanto che per per molti anni provò a migliorare la resa grafica della sua pronuncia; d'altro canto, ciò comportò delle differenze tra i suoi primi manoscritti e quelli successivi. Il poeta Giorgio Vigolo, che nel 1952 curò la prima raccolta completa dei Sonetti, uniformò le varie grafie secondo le regole adottate per i versi dell'ultimo periodo. Nel 1965 un'altra edizione completa fu curata da Bruno Cagli, noto musicologo e romanista, che a beneficio dei lettori semplificò leggermente la grafia, omettendo alcune doppie consonanti, ripristinando l'uso costante della lettera q, sostituendo sce e sci con un comune ce e ci ed operando altri interventi minori. La seguente quartina (tratta dal celebre Er giorno der giudizzio), mette a confronto le due versioni; le differenze sono evidenziate in rosso.
se metteranno uno pe cantone a ssonà: poi co ttanto de voscione cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca. |
se metteranno uno pe cantone a ssonà: poi co ttanto de vocione cominceranno a dì: « Fora a chi ttocca ». |
Si disporranno uno per angolo a suonare: poi con tanto di vocione cominceranno a dire: sotto a chi tocca. |
La breve antologia di sonetti in questo sito è presentata secondo la versione di Vigolo, più vicina all'originale.
STRUTTURAIl sonetto è una forma di composizione usata dai poeti italiani fin dal Duecento. Nella sua forma classica si compone di quattordici versi endecasillabi, organizzati in due quartine seguite da due terzine; nella maggioranza dei casi le rime rispondono allo schema:
A B B A - A B B A - C D C - D C Dma a volte anche: A B A B - A B A B - C D C - D C De nei sonetti della seconda metà della raccolta le terzine sono collegate solo dalla rima del verso centrale: A B A B - A B A B - C D C - E D E |
Sta tu' Francia sarà una gran Città,Alcuni dei sonetti di Belli sono caudati, cioè ai quattordici versi regolari fanno seguito una o più terzine aggiuntive composte da un verso settenario (quindi più breve di quattro sillabe) che rima col precedente, più due endecasillabi che rimano tra di loro, secondo lo schema seguente: A B B A - A B B A - C D C - D C D - D7 E E - E7 F F - ... |
Questa breve antologia contiene una selezione di sonetti famosi e altri meno conosciuti, con la versione in italiano a fronte (in quest'ultima la rima e la metrica vanno in larga parte perdute). Per comodità sono stati suddivisi nelle seguenti sezioni tematiche, nelle quali viene rispettato l'ordine cronologico in cui furono composti. |
LA SOCIETA' E IL QUOTIDIANO |
PRETI, FRATI, PAPI E LA CHIESA DI ROMA |
SONETTI LICENZIOSI |
TEMI BIBLICI |
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BERNERI |
PASCARELLA |
ZANAZZO |
TRILUSSA |
FABRIZI |
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