~ curiosità romane ~

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le targhe di proprietà

uno spaccato della galassia di comunità
attive nella Roma dei secoli passati



Dopo le targhe alluvionali e quelle del mondezzaro (di cui si parla rispettivamente a pagina 4 e pagina 5 di questa sezione), un terzo tipo di epigrafi molto comuni in tutte le aree storiche della città sono quelle che in passato attestavano la proprietà degli immobili. Molti degli edifici a cui sono affisse un tempo appartenevano ai numerosi sodalizi e associazioni che operavano nella Roma dei secoli passati.
Camminando per le strade e i vicoli dei rioni centrali è impossibile non imbattersi in questi piccoli e suggestivi documenti di pietra, che tuttavia passano inosservati ai più, un po' per la loro dimensione, spesso molto modesta, ma soprattutto perché sono collocati più in alto delle targhe già trattate. In particolare, si trovano affissi solitamente sopra il portone d'ingresso delle case, oppure all'altezza del primo piano e, più raramente, anche a livelli superiori. Queste targhe sono molto eterogenee per età, potendo coprire un periodo che spazia dal secolo XVI al XIX, ma lo sono anche e soprattutto per il loro contenuto; molte di esse, infatti, oltre al testo scritto recano incisi o scolpiti simboli o immagini, la cui notevole varietà iconografica riflette il gran numero e la diversità tipologica delle organizzazioni o società attive un tempo a Roma, per le quali già allora il "mattone" costituiva una forma di investimento, sebbene i proventi fossero, nella massima parte dei casi, non finalizzati all'arricchimento dei proprietari bensì volti a finanziare attività assistenziali e opere di carità.

Molte delle originali targhe di proprietà sono andate perdute assieme alle vecchie case su cui erano affisse, oppure sono state rimosse in occasione di restauri e ristrutturazioni, quando non perfino trafugate da collezionisti; ne rimane tuttavia un buon numero, circa cinquecento, che le rende senz'altro il tipo di epigrafe più facile da incontrare nei rioni storici.
In questa prima parte sono descritte quelle relative alle case appartenute ad enti religiosi, mentre nella seconda parte vengono trattate quelle delle comunità straniere residenti a Roma e delle corporazioni di categorie lavorative.

Chi fosse interessato a localizzare le targhe mostrate nelle fotografie, può muovere il cursore del mouse sulle immagini per leggerne l'indirizzo esatto; per osservare nei dettagli quelle più piccole, quelle poste più in alto e quelle non più in buone condizioni è consigliabile portare con sé un binocolo da tasca.

Occorre precisare che tra le targhe di proprietà ne sopravvivono anche molte che segnalavano l'appartenenza di case a singoli individui e alle loro famiglie. Queste hanno una tipologia piuttosto monotona ed uniforme: riportano essenzialmente il nome e cognome del titolare, spesso accompagnato da espressioni quali "libera da canone" o simili, indicanti il fatto che la casa non era soggetta al pagamento di alcun affitto. La maggior parte di esse è scritta in italiano; solo quelle più antiche sono in latino (esempi più in basso).
alcune targhe di proprietà di privati
Alcune segnalano anche l'anno di entrata in possesso, il piano (se la proprietà era limitata a uno o più appartamenti del fabbricato), oppure un numero progressivo (se il titolare possedeva più di una casa) e l'eventuale diritto di trasmissione agli eredi.

L'aspetto comunque semplice di queste targhe si evince dagli esempi mostrati qui in alto.

Le targhe di proprietà più interessanti, però, non sono quelle riferite a persone fisiche, bensì quelle di entità molto diverse ed eterogenee, tra cui chiese, monasteri, confraternite, ospizi, ospedali, conservatori (case di accoglienza per ragazze orfane o povere), collegi, associazioni di categoria, comunità straniere residenti a Roma. Essendo quasi tutte più antiche di quelle private, sono redatte in latino.
targa della Confraternita della Santissima Annunziata, che nel pannello di sinistra raffigura un'Annunciazione


targa dell'Arciconfraternita
dell'Immacolata Concezione
In queste targhe, quasi sempre compare nella parte inferiore un numero romano che indica l'ordine con cui l'immobile era riportato nei registri dei titolari. Sebbene in molti casi tale numerazione sia bassa, a volte si incontrano numeri superiori al 100 (e in un caso persino oltre il 300!); ciò fa comprendere come alcuni enti o associazioni potevano contare su un patrimonio immobiliare decisamente solido. In alcuni casi il numero originale appare abraso (come nell'esempio a destra) con l'aggiunta successiva di uno diverso, in conseguenza di modifiche dell'ordine che facevano seguito a vendite o a cessioni di qualche casa a nuovi proprietari.

targa dell'Arciconfraternita delle
Santissime Stigmate di San Francesco;
si noti il numero originale abraso


↑ questa vecchia casa ha un affresco del 1614
che ne dichiara la proprietà della Confraternita
dei Palafrenieri; (al centro, il testo in dettaglio) →
Sebbene la stragrande maggioranza di questi attestati avesse la forma di una targa di pietra affissa sulla casa, non manca qualche esempio in cui l'avviso è un affresco, anche piuttosto elaborato: ciò denota il chiaro intento di svolgere sull'immobile una funzione decorativa, oltre che legale. Gli esempi più eclatanti sono quelli relativi alle proprietà della comunità spagnola residente a Roma, uno dei quali è mostrato qui a destra, ma non sono gli unici.


↑ affresco che attesta l'appartenenza
della casa all'ospedale della chiesa
spagnola dei Santi Giacomo ed Alfonso

Infine, analizzando la distribuzione topografica delle targhe di proprietà, è interessante constatare che le case possedute da chiese, ospedali, associazioni, ecc. erano per lo più concentrate nelle strade limitrofe alla sede dell'ente stesso, ma in diversi casi, soprattutto quando il titolare era importante, esistevano sue proprietà anche in zone della città diverse, talora lontanissime.

I parte
targhe degli enti religiosi


Le targhe di proprietà più numerose sono quelle relative ad enti a carattere religioso. Essi comprendono chiese e basiliche (anche importanti), abbazie, conventi e monasteri, confraternite ed arciconfraternite.
Tranne quelle che riportano in rilievo solo due chiavi e la tiara, emblema del Capitolo della basilica di San Pietro in Vaticano, tutte le altre citano più o meno esplicitamente la chiesa di appartenenza, a volte accompagnando il testo con simboli o immagini relativi al santo.

targhe su case appartenute al Capitolo di San Lorenzo in Damaso e a →
San Lorenzo in Panisperna, entrambe con la graticola, simbolo del santo
targhe della chiesa di Santa Maria dell'Anima e delle basiliche di
Santa Maria in Trastevere, San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano

Interessanti dal punto di vista iconografico sono quelle relative alle svariate case possedute da Santa Maria di Monserrato, chiesa della comunità spagnola in Roma, situata nel Rione VII, Regola. Fu edificata attorno al 1495 dalle comunità aragonese e catalana sulle rovine di una più antica chiesa o cappella con annesso ospedale, San Niccolò dei Catalani, fondata nella prima metà del Trecento da una nobildonna di Barcellona. Il suo titolo proviene da quello di un noto santuario situato nei dintorni di quella città, chiamato della Vergine di Montserrat, che sorge sull'omonimo monte; Mont serrat in catalano vuol dire letteralmente "monte segato", per cui nelle targhe di proprietà appare una curiosa immagine della Madonna col Bambino, in cui quest'ultimo taglia il monte con una sega da carpentiere.
Nel 1610 in Santa Maria di Monserrato furono traslati i resti di due papi spagnoli, Callisto III ed Alessandro VI, della famiglia Borgia; erano stati inizialmente tumulati nell'antico San Pietro in Vaticano, nella cappella di Santa Maria della Febbre, poi distrutta durante la costruzione della seconda basilica. Tuttavia anche nella seconda chiesa ai loro resti fu data effettiva sepoltura solo nel 1889.

targa di Santa Maria di Monserrato

sotto lo stemma si legge:
"L'EDIFICIO È IN PERPETUO
DI PROPRIETÀ DI SANT'IVO"
Nel Rione IV, Campo Marzio, sorgeva un tempo la chiesa di Sant'Ivo dei Bretoni, costruita verso la metà del Quattrocento in sostituzione di una più antica (del XII secolo) intitolata a Sant'Andrea de Marmorariis ovvero de Mortarariis. Callisto III aveva concesso la nuova chiesa ai Bretoni, che all'epoca costituivano una nazione autonoma rispetto al regno di Francia. Anche questa come altre (vedi oltre) aveva annessi un ospizio ed un ospedale, istituiti nel 1511 da Giulio II a beneficio dei pellegrini di Bretagna. Attorno al 1575, però, Gregorio XIII affidò la gestione dell'ospedale alla nazione francese; il nosocomio divenne così una dipendenza della vicina chiesa di San Luigi (vedi oltre, ospedale di San Ludovico). La chiesa di Sant'Ivo fu demolita nella seconda metà dell'Ottocento e nel 1878 fu ricostruita sul lato opposto di vicolo della Campana, dove si trova tutt'ora. L'unica targa di proprietà superstite che attesti il possesso da parte di Sant'Ivo dei Bretoni (qui a sinistra) reca lo stemma di Bretagna, con dieci ermellini.
Il testo nel pannello inferiore, invece, documenta un tipo di contratto che nel medioevo era piuttosto comune, rimanendo in uso anche per diversi secoli dopo: l'enfiteusi. Consisteva nella cessione di una proprietà (in questo caso l'immobile) a tempo indeterminato e comunque non inferiore a dieci anni, dietro pagamento di una tassa annuale. Sotto enfiteusi, il titolare del contratto poteva usufruire dell'immobile e disporne a proprio piacimento, praticamente come se ne fosse l'effettivo proprietario. Versando in un'unica volta un certo numero prestabilito di annualità, poteva riscattare la proprietà ed entrarne in possesso a tutti gli effetti. Viceversa, qualora l'annualità non fosse stata versata, l'immobile sarebbe tornato in mano al proprietario.

Anche le principali cappelle nobiliari all'interno delle grandi basiliche a volte gestivano proprietà immobiliari.

Ne è un esempio la targa mostrata qui in basso, purtroppo oggi alquanto sbiadita, che si riferisce ad una delle case nella disponibilità della Cappella Giulia, in San Pietro in Vaticano (di cui è mostrato l'emblema nel dettaglio a destra). Anche in questo caso vi si trova un riferimento all'antico diritto di locazione, essendo menzionati i laudemi e i quindenni.
Il laudemio era un tributo anticamente pagato dai vassalli ogniqualvolta il signore del feudo a cui erano legati veniva a cambiare, in segno di approvazione (verrebbe infatti dal latino laudare, cioè "approvare"); in seguito fu così chiamata la tassa applicata ad ogni rinnovo di un contratto a lungo termine, quale per l'appunto era la succitata enfiteusi. Il quindennio, invece, consisteva nel 10% del valore dell'immobile, dovuto dal locatario al titolare della proprietà ogni quindici anni (da cui il nome).


(da sin.) targhe di Santa Maria sopra Minerva,
Sant'Andrea della Valle e Sant'Onofrio
Esistono targhe in cui il testo è ridotto ai minimi termini, forse anche per ragioni di costi (gli scalpellini venivano pagati a numero di lettere incise!), tanto da risultare difficilmente comprensibile a chi non conoscesse a memoria i nomi delle chiese dei dintorni: gli esempi mostrati a destra sono interamente abbreviati e fanno riferimento a chiese situate nelle immediate vicinanze.

Quelle relative agli immobili di abbazie, conventi e monasteri sono nella stragrande maggioranza piccole targhe molto sobrie, col solo testo o al massimo con piccoli simboli, come quelle mostrate di seguito.

targhe di proprietà dell'abbazia di San Pietro in Vincoli e dei monasteri di Santa Prassede, San Silvestro in Capite e Santa Caterina da Siena


Più eloquente è la targa in vicolo Sugarelli, presso via Giulia: assegna la proprietà del fabbricato al convento di Tor de' Specchi, sede delle Oblate di Santa Francesca Romana, situato ai piedi del Campidoglio. Questa istituzione, ancora oggi esistente, si discostava dalle altre simili del tempo, essendo le Oblate il primo esempio di congregazione femminile laicale, seppure risiedente all'interno del convento: tale diritto era stato concesso nel 1433 dal papa Eugenio IV alla popolare santa romana (al secolo Francesca Ponziani) e alle sue nove consorelle fondatrici. Le Oblate si ispiravano all'Ordine Benedettino, ma non avevano l'obbligo di seguirne la regola, né di pronunciare di voti monastici, né di vivere in clausura, come invece avveniva all'epoca per tutte le altre comunità femminili religiose. Non dipendevano da alcuna gerarchia del clero ed erano libere di eleggere la loro presidentessa. La loro missione, nata storicamente come assistenza ai poveri e ai malati, è oggi prevalentemente orientata all'insegnamento della dottrina cattolica.
La targa di proprietà raffigura Santa Francesca Romana col suo angelo custode, così come fu dipinta da Antoniazzo Romano nei celebri affreschi del tardo Quattrocento ancora esistenti nei locali del convento (qui a sinistra; per altri dettagli cfr. la sezione La lingua e la poesia).

Se il caso precedente rappresenta un'eccezione ante litteram nel panorama dell'associazionismo femminile, numerosissimi erano in passato i sodalizi detti confraternite, rigorosamente maschili, nati per lo più tra il tardo medioevo e l'inizio del Rinascimento, al punto che le targhe di proprietà relative al loro patrimonio immobiliare costituiscono tutt'oggi la netta maggioranza tra quelle superstiti.
Le confraternite avevano un'ispirazione prettamente religiosa, come si evince dai loro nomi, ma coloro che vi aderivano erano volontari laici, i confratelli; il loro statuto doveva essere approvato dal papa e prevedeva una o più missioni da compiere. Come sede avevano una chiesa od oratorio, che per le confraternite maggiori (arciconfraternite) veniva edificata appositamente per loro. In alcuni casi, poi, una stessa confraternita poteva avere più rami appoggiati a chiese differenti (esempi a destra); tra le ricadute pratiche di questa divisione c'era quella di non richiedere un luogo di riunione troppo grande e soprattutto consentire ai confratelli di presenziare senza allontanarsi troppo da casa.
targhe di proprietà dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, presso
"la basilica del Principe degli Apostoli" (cioè San Pietro) e San Lorenzo in Damaso
I membri indossavano una specie di uniforme, consistente per lo più in un saio e spesso anche un cappuccio di un determinato colore. Inoltre ogni confraternita aveva un proprio emblema o sigillo, che era un po' l'equivalente di uno stemma araldico e che spesso compare nelle targhe di proprietà. Infatti questi sodalizi disponevano di case e palazzi, in parte frutto di lasciti e donazioni da parte di facoltosi fedeli e confratelli anziani (come gli esempi a sinistra e in basso), oppure acquistate con i fondi del sodalizio stesso come forma di investimento: tali immobili venivano poi affittati e i proventi utilizzati per la realizzazione delle rispettive missioni.

← ↓ (a sin. e in basso) targhe di case lasciate in eredità da Giovanni Battista Canobia
alla Confraternita del Santissimo Corpo di Cristo, con sede presso la chiesa di
Santa Maria in Via, per provvedere alla dote delle "zitelle"

Le opere caritatevoli o missioni più frequenti erano l'assistenza ai malati, il conforto ai carcerati, la sepoltura dei morti e provvedere alla dote delle fanciulle da marito povere (o zitelle), come dichiarano le targhe qui a sinistra; nel curioso dettaglio a destra sono raffigurate le suddette zitelle, che presenziavano alla speciale cerimonia durante la quale veniva loro consegnata una borsa di monete integralmente coperte da un velo bianco, ad eccezione degli occhi.


Vale la pena di ricordare i sodalizi più importanti, molti dei quali con sede nelle strade attorno a via Giulia, cuore della Roma rinascimentale.

Arciconfraternita della Carità
È tutt'ora esistente. Fondata nel 1518 dal cardinale Giulio de' Medici (futuro papa Clemente VII) e approvata l'anno successivo da suo cugino Giovanni, l'allora papa Leone X, la Confraternita aveva sede presso la chiesa di Sant'Andrea de Unda, nel rione Regola; fu trasferita nel 1536 a San Girolamo della Carità, una chiesa edificata per tale scopo nel 1524, con annessi un refettorio, un dormitorio, un ospizio e perfino una biblioteca. Missione della Confraternita era di presiedere a varie opere di carità; tra i suoi progetti concreti si ricorda la costruzione e la gestione del monastero delle Convertite (che accoglieva ex prostitute) e la direzione delle Carceri Nuove volute da Innocenzo X attorno al 1650 (cfr. la relativa pagina nella sezione I Rioni). Nella seconda metà del Cinquecento tra i collaboratori della Confraternita vi fu San Filippo Neri, il quale abitò anche nel complesso presso San Girolamo; ma i membri del sodalizio provenivano in larga parte dall'aristocrazia e dall'alto clero, tanto che nel 1647 la chiesa della Confraternita fu interamente ricostruita grazie ad un ricco lascito di un confratello. Tra i privilegi del sodalizio vi era quello di poter liberare un condannato a morte all'anno, purché il reato commesso non fosse troppo grave, cioè omicidio premeditato, veneficio, ma anche falsificazione di documenti o di moneta pontificia e persino lesa maestà! L'emblema sulle targhe consiste in una croce greca dai bordi ricurvi, tra i cui bracci è inserita a gruppi di due lettere la parola CH·AR·IT·AS.

Arciconfraternita del Gonfalone
Il nome Gonfalone apparve alla metà del XIV secolo, quando quattro piccoli sodalizi si riunirono in un'unica entità; quello maggiore era detto Raccomandati di Madonna Santa Maria ed era stato fondato nel 1246 con sede in Santa Maria Maggiore. Il nome assunto dalla confraternita risultante dalla fusione era Raccomandati del Gonfalone. Alcuni sostengono che tragga origine da un episodio storico: attorno al 1350 il nobile Luca Savelli, di parte guelfa, si era impadronito del potere temporale e aveva cacciato da Roma il vicario papale (la più alta autorità pontificia in città, essendo quello il periodo dei papi avignonesi). Ma il popolo, unitosi sotto il gonfalone dei Raccomandati di Madonna Santa Maria, si ribellò all'autorità del Savelli, che finì per cedere il potere ad un altro reggente, scelto dagli stessi confratelli del sodalizio. Più verosimilmente, il nome potrebbe derivare dall'uso nelle processioni, da parte dei confratelli, di portare il gonfalone del papa, per sottolinearne l'autorità su Roma, nonostante il pontifice all'epoca risiedesse ufficialmente in Francia.
Nella seconda metà del Quattrocento l'antica sede di Santa Maria Maggiore fu trasferita a Santa Lucia Vecchia, chiesa situata sulla riva orientale del Tevere, nel rione Regola. Qui i Raccomandati si fusero con un'ulteriore sodalizio locale e nel 1486 ricevettero da Innocenzo VIII l'approvazione pontificia, divenendo Confraternita del Gonfalone. Nello stesso anno, a causa delle continue alluvioni fluviali, la loro sede venne ancora spostata a Santa Lucia Nuova (sui Monti Parioli, a nord della città), continuando a fondersi con altri sodalizi minori e crescendo quindi d'importanza. È tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento che la Confraternita si distingue per un'attività molto particolare: mettere in atto rappresentazioni sacre, particolarmente quella della passione di Cristo, il giorno del Venerdì Santo. Luogo prescelto era il Colosseo, dove grande era la quantità di pubblico che accorreva ad assistervi. Ma a causa delle sassate che venivano riservate agli attori che impersonavano gli aguzzini di Cristo (al punto da metterne a rischio l'incolumità personale), Paolo III finì col proibire questa tradizione. Per qualche anno ancora ebbe luogo in altre sedi, con minor afflusso di pubblico, ed infine cessò. Intanto nel 1547 l'ormai danneggiata chiesa di Santa Lucia Vecchia venne ricostruita come Oratorio del Gonfalone; così la Confraternita tornò alla sede originaria, presso il fiume.


In occasione del Giubileo del 1550 Giulio III concesse al sodalizio il privilegio di liberare un condannato a morte all'anno. Nel 1579 Gregorio XIII, dopo averne elevato il rango ad Arciconfraternita, aumentò tale diritto a due condannati all'anno e nel 1581 gli affidò anche una nuova importante missione: liberare i cristiani detenuti in schiavitù nelle terre degli Ottomani (come sintetizza il rilievo sopra l'ingresso dell'oratorio, mostrato qui a sinistra, raffigurante la Vergine che accoglie schiavi e confratelli incappucciati sotto il proprio manto protettore). Per circa due secoli, la maggior parte dei fondi del Gonfalone furono usati per riscattare migliaia di schiavi. La decadenza del sodalizio cominciò con l'occupazione francese di Roma, a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Tornata Roma nelle mani del papa, Pio VII affidò all'Arciconfraternita la gestione di un piccolo ospizio per ex carcerate presso Santa Maria in Trastevere. Poi, dopo la caduta dello Stato Pontificio, attraverso l'intero XX secolo, il sodalizio andò lentamente spengendosi. Dal 1968 l'Oratorio del Gonfalone è sede del Coro Polifonico Romano. Il suo sigillo, che si trova su un gran numero di targhe nelle strade circostanti l'Oratorio, mostra una croce greca assai simile a quella già descritta per l'Arciconfraternita della Carità, inscritta in un cerchio senza lettere.

Arciconfraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum
Una delle più antiche, fondata nel 1286, prende il nome dall'icona bizantina del Salvatore (mostrata qui in basso) conservata presso la Scala Santa, o Sancta Sanctorum. La sua missione era di assistere i numerosi pellegrini che visitavano questo luogo sacro e fornire conforto ai malati. Divenuta potente tra il XIV e il XV secolo, con un importante patrimonio immobiliare sparso in diversi rioni, fondò ben due ospedali, quelli del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum (a cui si riferiscono le targhe, anche detto di Sant'Angelo) e di San Giacomo al Colosseo.
L'Arciconfraternita inoltre gestiva alcuni Collegi, quali il Capranica, il Nardini, il Crivelli e il Ghisleri. I suoi confratelli erano detti Portieri o Raccomandati del Santissimo Salvatore. La sua importanza decadde solo nel corso dell'Ottocento, fino ad arrivare alla sua definitiva estinzione.


targhe dell'Arciospedale del
Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum,
di varie tipologie e varie epoche


Su quasi tutte le targhe superstiti compare l'emblema dell'Arciconfraternita, un'effige di Cristo tra due candelabri, incisa o a rilievo, con una certa varietà nella tipologia, giustificata anche dalla diversa età di questi reperti.


targa dell'Arciconfraternita con
vari oranti ai piedi della croce,
tra cui i confratelli incappucciati
Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso
Nei primi del Cinquecento un incendio rase al suolo la chiesa di San Marcello in via Lata (oggi via del Corso); si salvò solo un crocifisso del XIV secolo, la cui lampada votiva fu trovata miracolosamente accesa. Un piccolo gruppo di fedeli cominciò a riunirsi ogni venerdì sera per accendere lumini a questa immagine, finché con l'aumentare dei volontari, nel 1519 nacque un sodalizio. Tre anni dopo, una grave pestilenza colpì Roma, mietendo vittime. Si pensò di portare in processione il crocifisso miracoloso, ma le autorità ecclesiastiche, temendo una maggiore diffusione del morbo, vietarono l'iniziativa. La popolazione disattese il divieto; anzi, la processione durò ininterrottamente per ben sedici giorni, perché ovunque fosse portata l'immagine, i residenti inventavano stratagemmi per ritardarne l'allontanamento. Alla fine, quando rientrò in San Marcello, la peste era cessata.
Delle targhe esistono due varianti iconografiche.

variante più semplice: il crocefisso
è vuoto ed avvolto da una sciarpa,
con due soli oranti in basso

Arciconfraternita della Pietà ai Carcerati
Questo sodalizio, tutt'ora esistente, fu fondato nel 1575 per iniziativa di un gesuita francese, Jean Tallier, che operava a Roma come confessore dei detenuti nelle prigioni allora in funzione, quelle di Tor di Nona e Corte Savella (si vedano in proposito il Rione V, Ponte e il Rione VII, Regola). Inizialmente costituita da pochi volontari, ricevette aiuto da parte di papa Gregorio XIII, che la elevò al rango di Arciconfraternita. Il pontefice successivo, Sisto V, le concesse il privilegio di liberare un condannato a morte all'anno. Sede del sodalizio era inizialmente la chiesa dei Santi Cosma e Damiano de Pinea, nel cuore del Rione IX, Pigna, ma già dal 1584 si trasferì nell'antistante chiesetta dei Santi Eleuterio e Genesio, che la Confraternita fece riedificare dal 1624, cambiandole titolo in San Giovanni della Pigna.

su questa semplice targa il numero originale
è stato chiaramente scalpellato e cambiato col V

Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orto
Alla fine del XV secolo, l'area più meridionale di Trastevere era pressoché disabitata e coperta di campi coltivati (orti). Un giorno un infermo incurabile passando per uno di questi terreni vide presso un antico muro un'immagine della Madonna. Fece voto di accendervi una lampada perpetua se l'avesse fatto guarire dall'infermità, e così avvenne. Altri vollero aggregarsi al culto di questa immagine e di lì a poco ne nacque la Confraternita, approvata nel 1492 da Alessandro VI. Attorno all'immagine sorse un oratorio, poi sostituito dall'attuale chiesa, completata nel 1567.
Contemporaneamente fu fondato anche un piccolo ospedale adiacente. Fu Sisto V ad elevare il sodalizio ad Arciconfraternita nel 1588. Nell'emblema, raffigurato sulle numerose targhe superstiti, è presente una Madonna col Bambino seduta su un trono dall'alto schienale, fiancheggiata da due cipressi al centro di un giardino circondato da un recinto, secondo l'iconografia ancora medievale dell'hortus conclusus, simbolo di verginità (ma probabilmente con un riferimento anche all'orto). All'Arciconfraternita si aggregarono anche diverse corporazioni di arti e mestieri (per maggiori dettagli si veda la II parte).

Arciconfraternita di Santa Maria in Portico della Consolazione e delle Grazie
Fu fondata nel 1506 per gestire un ospedale costruito dietro la chiesa di Santa Maria della Consolazione, da cui il sodalizio prende il nome, situata ai piedi della Rupe Tarpea ed adiacente al Foro Romano. La chiesa era lì dal 1470, anche se fu poi ricostruita nelle forme attuali sul finire del secolo successivo. Il titolo Consolazione ha origine dal fatto che alla fine del Trecento un nobile condannato alla pena capitale, prima di salire sul patibolo (che allora veniva innalzato in quel luogo) lasciò una somma di denaro per la realizzazione di un'immagine della Madonna che confortasse i futuri giustiziati. Tale immagine pare fosse inizialmente affissa sotto un portico di proprietà della famiglia Mattei. Un giorno una madre il cui figlio era stato condannato a morte ingiustamente, si raccomandò a questa immagine, ricevendo dalla Madonna l'assicurazione che si sarebbe salvato. Tale miracolo valse all'immagine il nome di Madonna delle Grazie; in seguito fu trasferita all'interno della chiesa.
L'Ospedale della Consolazione inglobava una seconda chiesetta più antica di quella anzidetta; successivamente fu intitolata anch'essa Santa Maria delle Grazie e ristrutturata, per poi nell'Ottocento essere convertita in corsia dello stesso nosocomio.
Santa Maria della Consolazione era retta da una compagnia di gentiluomini appartenenti a diverse famiglie nobili di spicco, tra cui i Frangipane, i Savelli, i Mattei e i Colonna. Per questo motivo nell'Ospedale della Consolazione, oltre alla gestione ufficiale da parte della Confraternita preposta, era tradizione che prestassero servizio di volontariato anche molte nobildonne delle suddette famiglie. Alle spalle del nosocomio era presente un cimitero annesso, che un tempo si estendeva verso il Foro Romano fino alla Basilica Iulia; è scomparso in seguito agli scavi archeologici dell'area. Oggi i locali dell'ex ospedale sono adibiti a uffici del Comune.


Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orazione e Morte
Fu fondata nel 1538 a fronte dell'elevato numero di corpi di persone indigenti decedute, rimasti insepolti nelle strade come pure nella campagna. I confratelli, infatti, si occupavano di andare in giro a raccoglierli e di dare loro sepoltura nel cimitero ricavato sotto la chiesa omonima, situata in via Giulia, proprio alle spalle di Palazzo Farnese (cfr. Rione VII, Regola). Nel 1560 Pio IV la elevò ad arciconfraternita. Nel sigillo figura una clessidra, segno della fugacità del tempo, sormontato da una croce coi simboli della passione di Cristo (la spugna e la lancia).


Congregazione delle Santissime Piaghe
Si trattava di un sodalizio minore, la cui missione era quella di aiutare donne povere e preti infermi. Era stata fondata nel 1617 da un seguace di San Filippo Neri, il fiorentino Rutilio Brandi (di professione guantaio). Aveva per sede un oratorio dedicato allo stesso santo e situato in via Giulia, che il popolo chiamava San Filippetto per le minuscole dimensioni. Sull'unica targa di proprietà esistente, a pochi metri dall'oratorio, assieme al motto della congregazione, che recita in latino "la piaga è curata dalle piaghe", compaiono ancora una volta i simboli della passione di Cristo, in forma di lancia, chiodi e corona di spine.



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